Violenza sessuale e stalking : il valore del consenso
VIOLENZA SESSUALE E STALKING: IL VALORE DEL CONSENSO
Cassazione penale, sez. III, 7 marzo 2016, sent. N. 9221 – Pres. Mannino, Rel.Cons. Grillo
di Giusy Cardinale
La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n.9221 del 2016 ha chiarito in maniera concisa ma al contempo esaustiva, i tratti caratterizzanti i delitti di violenza sessuale (art. 609 bis c.p) e di atti persecutori (art.612 bis c.p).
La decisione oggetto di analisi trae origine dall’accoglimento in sede di Riesame del ricorso avverso un provvedimento applicativo della misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa e dai suoi prossimi congiunti, emesso in favore di un indagato per i reati di cui agli artt. 609 e 612 bis c.p. Tra l’indagato e la vittima esisteva un rapporto sentimentale conclusosi in maniera burrascosa, la cui fine non è stata accettata dal fidanzato.
Il ricorso presentato dal PM verte: sulla ritenuta sussistenza del consenso della vittima, da parte del Tribunale e concerne inoltre la presunta configurabilità, secondo il sostituto procuratore, anche del delitto di stalking.
Questi nel ricorso presentato alla Cassazione, lamentava l’inosservanza della legge penale circa il delitto di violenza sessuale in quanto il Riesame aveva considerato esistente il consenso da parte della vittima. Per quanto concerne lo stalking la decisione, inoltre, manifestamente illogica, non ha tenuto in debita considerazione molte circostanze.
La Terza Sezione Penale nel ritenere fondato anche se in parte il ricorso del PM, lo ha così motivato, partendo chiaramente da un breve excursus dell’accaduto.
La vicenda giudiziaria si colloca in un contesto di rapporto estremamente conflittuale tra due fidanzati, conclusosi per volere della ragazza a causa della morbosa gelosia del fidanzato, odierno indagato. Questi, non rassegnatosi all’idea della conclusione della storia d’amore, ha perpetrato insistentemente minacce con varie modalità costringendo la ragazza a modificare il proprio stile di vita.
Durante un incontro per così dire chiarificatore, al quale la ragazza aveva aderito, l’uomo ha costretto la stessa a subire un rapporto sessuale contro la sua volontà, sul sedile posteriore dell’auto in cui si trovavano (non è noto il motivo per il quale si trovassero su tale sedile e non su quello anteriore).
I motivi sulla quale si è fondata la decisione del Riesame sono stati dettati dal fatto che per quanto concerne il 609 c.p. la versione dei fatti resa dalla ragazza sarebbe stata contrastante con i successivi rilievi medici e materiali dai quali si sarebbe accertata la mancanza di segni di colluttazione sul suo corpo e sui vestiti oltre al fatto che le portiere dell’auto fossero apribili dall’interno. Pertanto, la ragazza secondo tale ricostruzione avrebbe prestato il consenso alla prima fase del rapporto ma non alla particolare conclusione dell’amplesso.
Circa gli atti persecutori, a giudizio del Tribunale, il reato non sarebbe configurabile in quanto la ragazza non ha interrotto i contatti con l’ex fidanzato mantenendo una sorte di complicità implicita.
Una volta ripercorso quanto accaduto nelle precedenti fasi processuali la Suprema Corte ha con grande fermezza espresso il proprio orientamento, in completo disaccordo rispetto al Tribunale il quale, oltre ad aver dato grosso risalto alla presunta inattendibilità della ragazza, non ha tenuto in debita considerazione gli orientamenti della Corte stessa in materia di violenza sessuale. Infatti, affinché possa parlarsi di consenso nell’ambito di un amplesso è indispensabile che questo sussista da parte della vittima senza interruzioni ed esitazioni o resistenze di sorta, fino alla conclusione del rapporto stesso.
Inoltre, il comportamento ritenuto assertivo e complice della ragazza altro non è che un tentativo di mantenere un dialogo civile con l’ex partner e non può essere decontestualizzato dal clima conflittuale esistente tra i due. Il che si evince anche dai messaggi scambiati tra i due protagonisti della vicenda (“ Mi sei arrivato dentro contro voglia ed io non volevo farlo” “Ora ti ho rovinata”).
L’eiaculazione interna quindi non ha costituito solo motivo di rammarico per la ragazza come sostenuto dal Tribunale ma ha leso la libertà di autodeterminazione della ragazza che costituisce il bene giuridico tutelato dall’art. 609 c.p.
In effetti, la libertà sessuale deve permanere senza soluzioni di continuità e incertezze comportamentali per l’intera durata del rapporto così come ribadito dalla Corte in più occasioni (Sez. III 11.12.2007 n.4532, Sez.III 21.9.2007, n.39428, Sez.III 10.5.1996, n.6214).
La conclusione del rapporto con l’eiaculazione interna assume un significato invasivo di un personaggio che intendeva legare a sé la ragazza prospettandole il rischio di una gravidanza in modo da riprendere la relazione conclusasi bruscamente; inoltre, il fatto che non vi siano stati segni di violenza sugli abiti e sul corpo e che le portiere fossero apribili dall’interno non implica che la ragazza desiderasse l’amplesso.
Per tale ragioni, atteso il superficiale inquadramento della questione, la Corte ha rinviato il tutto al Tribunale onde contestualizzare la vicenda nell’ambito di un rapporto non sereno tra i due giovani al fine di riguardare le modalità con cui è avvenuto il rapporto sessuale, rivedendo anche la presunta inattendibilità della donna, il tutto rifacendosi alle Osservazioni e ai precedenti giurisprudenziali della Cassazione penale.
In merito al secondo punto dell’istanza del PM sulla configurabilità degli atti persecutori ex art.612 bis c.p., la Corte offre una interpretazione della norma ai fini della sua applicabilità al caso concreto.
L’art. 612 bis cp recita : “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.
La Corte ritiene che i presupposti del reato, la reiterazione della condotta e l’assiduità delle molestie devono persistere per la sua configurabilità. Una condotta che fosse circoscritta ad una serie di atti di disturbo, non seguita dall’evento danno sulla persona, non integrerebbe la fattispecie, così come non la integrerebbe una condotta tale da provocare un senso di paura o di stress non preceduto o caratterizzato dalla ripetitività dell’azione. Se a questo non si aggiunge il comportamento della vittima che si frappone alle molestie viene meno il pregiudizio alla psiche della persona offesa (v. Sez. III 7.3.2014 n.23485, Sez. V 19.5.2011 n.29872, in relazione alla ripetitività delle condotte e degli eventi).
La gravità richiesta dalla norma punitiva dipende in genere dalla intensità intrinseca delle minacce ricevute, dalla pericolosità dell’agente e dalle circostanze che nel concreto ne fanno apprezzare la estrema probabilità di verificazione del danno ingiusto. Il mutamento di abitudini di vita è fatto considerato dall’esperienza come comportamento necessitato cui la vittima ricorre per cercare di sottrarsi alle stesse, per cui diventa una sorta di precauzione. Ne consegue che laddove il comportamento del soggetto passivo in qualche modo assecondi il comportamento del soggetto agente, vengono meno il requisito indispensabile del mutamento radicale delle proprie abitudini e la situazione di ansia che segna in modo irreversibile la vita della vittima.
Ecco perché, attesi i comportamenti quantomeno incongrui della vittima, la Corte accoglie solo in parte l’istanza del PM circa la violenza sessuale e rigetta la stessa circa lo stalking.
La condanna di violenze fisiche, anche meno evidenti, è espressione di una interpretazione finalistica, che considera come preponderante la percezione dell’evento da parte della persona offesa che incarna il bene giuridico tutelato. Infatti, il consenso all’atto sessuale seppur venuto meno alla fine del rapporto è capace di integrare l’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale.
D’altra parte, mostrandosi molto più aderente alla lettera della norma, la Corte ha affermato che, in tema di atti persecutori, il giudice di merito deve sempre accertare se la persona offesa abbia effettivamente subìto un’offesa e che tale pregiudizio si sia almeno estrinsecato in un deciso presa distacco morale e fisico dallo stalker.
L’elemento comune, ad ambo i reati, è l’enorme importanza attribuita al consenso, la presenza o l’assenza del quale, esclude o, al contrario, determina l’intervento dell’ordinamento attraverso la irrogazione di una sanzione penale.
In merito alla conclusione del procedimento penale che ha ispirato tale pronuncia della Cassazione, occorrerà attendere il termine del giudizio per verificare l’orientamento e la decisione adottata dal Tribunale competente di Avellino.
Testo della Sentenza n. 9221/2016
Normativa di riferimento
Articolo 609 bis c.p. – Violenza sessuale
Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.
Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:
1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.
Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.
Articolo 612 bis c.p. – Atti persecutori
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumita’ propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.
Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.
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