Truffa aggravata, cosa dice la Cassazione
Truffa aggravata, cosa dice la Cassazione
Corte di Cassazione sezione II Penale
sentenza 22 – 30 settembre 2015, n. 39457
Presidente Esposito – Relatore Manna
La Suprema corte di Cassazione, con la sentenza che si riporta, ha chiarito alcuni interessanti aspetti relativi al reato di truffa aggravata.
Il caso in commento riguardava la vendita di terreni edificabili sottacendo alla società acquirente che erano inquinati dalla presenza, a diverse profondità, di scorie (metalli pesanti), garantendo che detti terreni non avevano bisogno di bonifica alcuna né del suolo né del sottosuolo e, a tal fine, veniva prodotta dall’imputato una falsa attestazione dell’ARPA Lombardia basata su una falsa dichiarazione di non contaminazione dei terreni.
Testo della Sentenza
Ritenuto in fatto
Con sentenza del 14.7.14 la Corte d’Appello di Milano confermava la condanna emessa il 31.10.13 dal Tribunale della stessa sede nei confronti di Z.G. per il delitto di truffa aggravata ex art. 61 n. 7 c.p..
Questi i fatti, come ricostruiti dai giudici di merito: nel 2008 l’imputato, nel vendere – nella propria qualità di legale rappresentante della Immobiliare G.B. S.r.l. e di soggetto comunque operante nel settore delle compravendite immobiliari da circa 60 anni — all’Artemide S.r.l., per il complessivo importo di Euro 4.860.000,00, terreni edificabili siti nel Comune di Legnano e di cui era proprietario o comunque possessore dal 1976, aveva taciuto alla società acquirente che essi erano inquinati dalla presenza, a diverse profondità, di scorie (metalli pesanti) derivanti dall’ex Cotonificio Bertocchi (che in passato insisteva sui terreni medesimi). Inoltre, con apposita clausola inserita nel contratto di vendita, l’imputato aveva espressamente garantito alla suddetta Artemide S.r.l. che detti terreni, contrariamente al vero, non avevano bisogno di bonifica alcuna né del suolo né del sottosuolo: a tal fine aveva prodotto un’attestazione dell’ARPA Lombardia falsa perché basata su una falsa dichiarazione di non contaminazione dei terreni proveniente dalla Legnano Investimenti S.r.l., precedente denominazione della Immobiliare G.B. S.r.l. di cui era legale rappresentante sempre lo Z. .
Ad avviso dei giudici di merito non solo erano necessari ingenti interventi, se non di bonifica tecnicamente intesa, comunque di rimozione delle scorie (interventi poi effettivamente costati all’Artemide S.r.l. più di un milione e mezzo di Euro e ciò per poter riprendere i lavori di edificazione sospesi ex auctoritate proprio a cagione della presenza di scorie potenzialmente inquinanti rivelata da un esposto anonimo), ma tale situazione era ben nota al venditore almeno sin dal 2005. Ciò perché era stata accertata da precedenti analisi che lo stesso Z. (in qualità di legale rappresentante della Legnano Investimenti S.r.l., vecchia denominazione della Immobiliare G.B.) aveva chiesto alla S.r.l. Marta Renato nel corso di precedenti trattative di vendita dei terreni con altro potenziale acquirente (il teste M. , come da lui riferito in udienza), trattative poi fallite proprio a cagione dell’esito degli accertamenti in discorso e per il rifiuto dello Z. di detrarre dal prezzo di vendita il costo necessario a rimuovere le scorie presenti nei terreni. La presenza di metalli pesanti in concentrazioni superiori ai valori di legge era stata poi confermata anche dai successivi accertamenti effettuati dall’ARPA Lombardia e riferiti dal teste C. , nonché da quelli eseguiti in sede di indagini difensive dalla ditta CESILAB (officiata dalla società acquirente).
Tramite il proprio difensore Z.G. ricorreva contro la sentenza, di cui chiedeva l’annullamento per i motivi qui di seguito riassunti nei limiti prescritti dall’art. 173 co. 1 disp. att. c.p.p.:
a) mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, per avere la sentenza impugnata recepito senza cautela alcuna le dichiarazioni accusatorie provenienti dalla persona offesa (non costituitasi parte civile in quanto la sua domanda risarcitoria era pendente in sede civile) e per aver asserito, contrariamente al vero, che la difesa del ricorrente fosse impostata sul presupposto che egli ignorasse, a differenza della società acquirente, il vero stato dei luoghi: in realtà lo Z. , che aveva ammesso di conoscere le indagini della Marta Renato S.r.l., si era limitato a lamentare che non gli era stato consentito di verificare lo stato dei terreni venduti accedendovi dopo che gli erano state mosse le accuse all’origine del processo e aveva soltanto allegato che il compratore (cioè la Artemide S.r.l.) era in condizione di conoscere l’esistenza delle analisi effettuate dalla Marta Renato S.r.l., che – anzi – probabilmente conosceva; ciò comportava un travisamento della posizione difensiva dello Z. ; inoltre, era sospetto che Ci.Mi.Lu. (legale rappresentante della società acquirente) non avesse chiesto di verificare lo stato dei terreni prima di acquistarli (come invece aveva fatto il M. ) e avesse fatto eseguire gli scavi alla CESILAB in maniera quasi furtiva, come se volesse occultare all’ARPA il ritrovamento di materiali anomali, argomentazioni – queste – cui la gravata pronuncia non aveva risposto, così come non aveva considerato che l’arch. Ca. , tecnico di fiducia dello Z. , poi entrato in società con l’acquirente Artemide S.r.l. prima della firma del preliminare di vendita con la Immobiliare G.B., ben conosceva l’esito delle analisi della Marta Renato S.r.l., sicché era inverosimile che le avesse nascoste alla legale rappresentante della società acquirente; e ancora: la Corte territoriale non solo aveva sottovalutato la differenza tra la necessità di una bonifica e quella di una mera rimozione delle scorie (la garanzia contrattuale si riferiva solo alla prima e, infatti, la bonifica non si era poi rivelata necessaria, essendo bastata la mera rimozione delle scorie), ma aveva altresì confuso la dichiarazione di non contaminazione recante la firma apocrifa del ricorrente, mai allegata ad alcun atto di vendita, con la lettera di non necessità di indagini sulla salubrità del suolo allegata al preliminare, preliminare per altro predisposto dalla società acquirente; in breve, la tesi difensiva su cui insisteva il ricorrente era che la società acquirente sapesse dello stato dei luoghi perché riferitole dall’arch. Ca. e che, ciò nonostante, avesse sottoscritto il contratto di compravendita dei terreni per scaricare sullo Z. il costo dello scavo che sapeva di dover poi comunque effettuare; sempre nel corpo del primo motivo di ricorso ci si doleva dell’assenza di prova testimoniale o documentale sull’esatta qualità e quantità dei rifiuti asportati (viste, altresì, le discrasie fra quanto accertato da Marta Renato S.r.l. e CESILAB) e, quindi, anche sul costo necessario per eseguire gli scavi poi effettuati per conto della società acquirente, a tal fine essendo inattendibili e comunque inutilizzabili le analisi a suo tempo eseguite senza contraddittorio dalla Marta Renato S.r.l. e dalla CESILAB; né era irrilevante – contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito – stabilire se le scorie presenti sui terreni avessero bisogno di interventi di mera loro rimozione o di bonifica tecnicamente intesa (che, in effetti, non era mai stata eseguita); ciò era stato lamentato nella consulenza di parte redatta dal Dott. P. , immotivatamente svalutata dalla Corte territoriale anche nella parte in cui il c.t.p. aveva contestato la correttezza del metodo di analisi seguito da Marta Renato S.r.l., sicché – stante la mancanza di necessità di bonifica – doveva ravvisarsi un’ipotesi di reato impossibile ex art. 49 c.p.; la gravata pronuncia andava altresì censurata per aver sottovalutato la perizia che aveva accertato la falsità della firma del ricorrente apposta in calce alla suddetta dichiarazione di non contaminazione, nonostante che ciò facesse venir meno uno degli artifici in cui si sarebbe concretizzata la truffa addebitata allo Z. , dichiarazione che questi non aveva mai avuto modo di vedere prima del deposito degli atti ex art. 415 bis c.p.p., sicché costituiva vero e proprio travisamento dei fatti la contraria affermazione della Corte d’appello; b) violazione degli arti 90, 189, 190, 191, 234, 391 octies, 431, 433 e 500 c.p.p. e 111 Cosi, nella parte in cui la sentenza impugnata aveva valutato a carico del ricorrente anche una memoria scritta della querelante Ci. depositata ad integrazione della deposizione dibattimentale da lei già resa (si tratta di censura in sostanza espressa anche all’interno del primo articolato motivo di ricorso);
c) violazione dell’art. 49 co. 1 c.p. e vizio di motivazione perché, non essendosi verificata contaminazione alcuna dei terreni (tanto da non essere necessaria una loro bonifica), anche a voler supporre davvero una mala fede del ricorrente all’atto della vendita dei terreni medesimi si sarebbe stati in presenza, semmai, di erronea supposizione dell’esistenza d’un reato;
d) nullità e inutilizzabilità di tutti gli accertamenti tecnici dell’ARPA e della CESILAB perché eseguiti in assenza dell’imputato o del suo difensore e, quindi, in violazione del contraddittorio;
e) insussistenza dell’aggravante dell’art. 61 n. 7 c.p. e vizio di motivazione a tale riguardo, aggravante che era stata ravvisata in base alla copia della fattura di Euro 1.600.000,00 relativa alle operazioni di rimozione delle scorie dai terreni in questione: si obiettava in ricorso che tale stima era arbitraria, non conoscendosi l’esatto quantitativo del materiale rimosso né il tipo di discarica cui è stato avviato; il c.t.p. del ricorrente (Dott. P. ) aveva invece stimato – ipoteticamente – tale spesa in circa 150.000,00 Euro.
Considerato in diritto
1- Il ricorso è infondato.
Il motivo che precede sub a) si colloca al di fuori del novero di quelli spendibili ex art. 606 c.p.p., perché in esso sostanzialmente si svolgono mere censure sulla valutazione operata in punto di fatto dai giudici del gravame con motivazione esauriente, logica e scevra da contraddizioni.
Le differenti letture ipotizzate in ricorso (anche con riferimento ad ulteriori elementi probatori che – a dire del ricorrente – sarebbero stati a suo discarico) si muovono sul piano dell’apprezzamento di merito, che presupporrebbe un accesso diretto agli atti e una loro delibazione in punto di fatto incompatibili con il giudizio innanzi a questa Corte Suprema. Ad essa spetta soltanto il sindacato sulle massime di esperienza adottate nella valutazione degli indizi di cui all’art. 192 co. 2 c.p.p., nonché la verifica sulla correttezza logico-giuridica del ragionamento seguito e delle argomentazioni sostenute per qualificare l’elemento indiziario come grave, preciso e concordante, senza che ciò possa tradursi in un nuovo accertamento, ovvero nella ripetizione dell’esperienza conoscitiva propria dei gradi precedenti (cfr., ad es., Cass. Sez. VI n. 20474 del 15.11.02, dep. 8.5.03).
A sua volta il controllo in sede di legittimità delle massime di esperienza non può spingersi fino a sindacarne la scelta, che è compito del giudice di merito, dovendosi limitare questa S.C. a verificare che egli non abbia confuso con massime di esperienza quelle che sono, invece, delle mere congetture.
Le massime di esperienza sono definizioni o giudizi ipotetici di contenuto generale, indipendenti dal caso concreto sul quale il giudice è chiamato a decidere, acquisiti con l’esperienza, ma autonomi rispetto ai singoli casi dalla cui osservazione sono dedotti ed oltre i quali devono valere; tali massime sono adoperabili come criteri di inferenza, vale a dire come premesse maggiori dei sillogismi giudiziali di cui alle regole di valutazione della prova sancite dal co. 2 dell’art. 192 c.p.p..
Costituisce, invece, una mera congettura, in quanto tale inidonea ai fini del sillogismo giudiziario, tanto l’ipotesi non fondata sull’id quod plerumque accidit, insuscettibile di verifica empirica, quanto la pretesa regola generale che risulti priva, però, di qualunque pur minima plausibilità (cfr. Cass. Sez. VI, n. 15897 del 15 aprile 2009; Cass. Sez. VI n. 16532 del 13.2.07, dep. 24.4.07, rv. 237145).
Ciò detto, si noti che nel caso di specie il ricorso non evidenzia l’uso di inesistenti massime di esperienza né violazioni di regole inferenziali, ma si limita a sostenere possibili difformi valutazioni degli elementi probatori raccolti che la gravata pronuncia ha esaminato e motivatamente escluso.
In particolare, non costituisce travisamento denunciabile ai sensi dell’art. 606 c.p.p. l’asserita erronea interpretazione della linea difensiva adottata dalla parte, essendo quello deducibile mediante ricorso per cassazione soltanto il travisamento della prova il cui contenuto sia stato riferito (non “apprezzato”) in sentenza in modo manifestamente difforme dal vero.
Presuppone, poi, una valutazione di merito l’ipotesi – avanzata in ricorso – che il compratore (cioè la Artemide S.r.l.) conoscesse o fosse comunque in condizione di conoscere l’esistenza delle analisi effettuate dalla Marta Renato S.r.l., così come appartengono al merito i sospetti a riguardo sollevati dal ricorrente in base alle modalità degli scavi fatti eseguire dalla CESILAB.
Inoltre, circa le argomentazioni difensive su cui la sentenza impugnata non avrebbe risposto, basti rammentare che nella propria motivazione il giudice del merito non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali e gli argomenti esposti, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il proprio convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo, nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili – come avvenuto nel caso in esame -con la decisione adottata (cfr., e pluribus, Cass. Sez. VI n. 20092 del 4.5.11, dep. 20.5.11; Cass. Sez. IV n. 1149 del 24.10.2005, dep. 13.1.2006; Cass. Sez. IV n. 36757 del 4.6.2004, dep. 17.9.2004).
Quanto alla posizione dell’ardi. Ca. e all’ipotesi che questi avesse riferito alla Artemide S.r.l. della presenza di scorie sui terreni oggetto di trattativa, sicché la società acquirente, pur sapendo del reale stato dei luoghi, avrebbe sottoscritto il contratto di compravendita per poi scaricare sullo Z. il costo di uno scavo che sapeva di dover poi comunque effettuare, si consideri che la censura muove da un presupposto fattuale smentito in sentenza.
Invero, la gravata pronuncia ha riportato che – in realtà – l’arch. Ca. è rimasto collaboratore dello Z. fino al 2009 (mentre la stipula del contratto in discorso risale al 17.7.08); soltanto dopo la fine di tale collaborazione ha avviato rapporti con la Artemide S.r.l..
Ma, anche a prescindere da ciò, è dirimente che nello stesso ricorso si afferma che la lettera dell’ARPA fu allegata al preliminare e che essa parlava di non necessità di indagini sulla salubrità del suolo proprio sulla scorta della precedente dichiarazione di non contaminazione che, a dire del ricorrente medesimo, recava la sua firma apocrifa: ma allora (come logicamente rilevato dalla Corte d’appello), se davvero il ricorrente fosse stato all’oscuro dell’inoltro e della sottoscrizione di tale lettera, una volta preso atto della successiva risposta dell’ARPA egli si sarebbe dovuto chiedere da cosa fosse scaturita e cioè chi avesse sottoscritto al posto suo quella dichiarazione di non contaminazione del 29.6.06 espressamente menzionata proprio nella lettera dell’ARPA dell’8.11.06.
Inoltre, tale impostazione difensiva muove dal presupposto che l’arch. Ca. abbia “manovrato” all’oscuro del ricorrente – anche se sostanzialmente a suo favore -, ipotesi la cui esclusione è stata logicamente motivata dalla Corte territoriale; ed ancora, poiché lo Z. era a conoscenza fin dal 2005 delle indagini della Marta Renato S.r.l. (e ciò egli ribadisce anche nel proprio ricorso per cassazione), ictu oculi avrebbe colto la stridente contraddizione fra queste e l’affermazione dell’ARPA circa la non necessità di indagini sulla salubrità del suolo e avrebbe dovuto segnalarla alla società acquirente.
In proposito è manifestamente illogica non già la motivazione della sentenza impugnata, bensì l’ipotesi difensiva secondo cui la Artemide S.r.l. avrebbe consapevolmente sborsato 4.860.000,00 Euro e, poi, più di un milione e mezzo di Euro (secondo la sentenza impugnata: per il ricorrente sarebbero stati necessari solo 150.000,00 Euro) per la rimozione dei metalli pesanti, per poi poter chiedere allo Z. di rimborsarle le spese di tale rimozione previa instaurazione di una lite dall’esito dubbio e comunque sempre nell’oggetti va incertezza di riuscire poi, se vittoriosa, a recuperarle in concreto da una persona che all’epoca del rogito aveva già più di 73 anni d’età.
È, ancora, da disattendersi tutto l’assunto difensivo che insiste sulla differenza tra bonifica dei suoli e mera rimozione delle scorie senza successivo trattamento dei terreni: come correttamente notato dai giudici di merito, anche soltanto la presenza di scorie (di cui il ricorrente era a conoscenza da alcuni anni grazie alla analisi effettuate dalla S.r.l. Marta Renato) andava segnalata all’acquirente, senza prestare quell’esplicita garanzia circa l’assenza di contaminazione dei terreni giocando sull’equivoco che essi, pur presentando massiccia presenza di scorie potenzialmente inquinanti e comunque (almeno) necessariamente da rimuovere, potessero però non avere bisogno anche di una bonifica tecnicamente intesa.
In altre parole, poiché il contratto va interpretato secondo buona fede (v. art. 1366 c.c.), la clausola con cui lo Z. garantiva espressamente che i terreni non avrebbero avuto bisogno di interventi di bonifica né del suolo né del sottosuolo è stata correttamente interpretata dalla sentenza impugnata come garanzia che i terreni non presentavano anomalie di sorta neppure nel sottosuolo e non già come garanzia che le scorie, pur presenti, dovessero essere semplicemente rimosse senza che a ciò si accompagnasse anche la necessità di interventi di bonifica.
D’altro canto, lo stesso complessivo tenore del ricorso non sostiene affatto che lo Z. abbia riferito all’acquirente della presenza di metalli pesanti che sarebbe bastato rimuovere senza la necessità di successivi trattamenti specifici di bonifica.
In breve, la condotta fraudolenta è consistita nel far credere all’acquirente che sui terreni non vi fossero scorie di sorta, circostanza di fatto che lo Z. sapeva non corrispondere al vero.
E lo sapeva perché da anni era a conoscenza degli accertamenti svolti su suo incarico dalla S.r.l. Marta Renato, così come era altresì edotto del fatto che l’attestazione dell’ARPA si basava pur sempre su informazioni fornite dalla sua società, espressamente richiamate nell’attestazione medesima.
In breve, le condotte del ricorrente – la prima omissiva (tacere l’esito delle analisi della S.r.l. Marta Renato), la seconda commissiva (garantire con espressa clausola contrattuale ciò che sapeva di non poter garantire, a tal fine avvalendosi di una attestazione dell’ARPA che sapeva non essere veritiera) – costituiscono artifici e raggiri penalmente rilevanti ai fini della configurazione del delitto di truffa contrattuale, che ricorre ogni qual volta l’agente – tramite, appunto, artifici e/o raggiri – tragga in inganno il soggetto passivo, indotto a prestare un consenso che altrimenti non avrebbe prestato o avrebbe prestato a condizioni diverse.
A sua volta la condotta dell’odierno ricorrente ha in concreto leso l’oggetto giuridico del delitto p. e p. dall’art. 640 c.p. (la libera formazione della volontà negoziale), il che esclude l’ipotesi del reato impossibile di cui all’ari 49 co. 2 c.p..
Le considerazioni sopra svolte dimostrano, altresì, l’irrilevanza di un esatto accertamento di qualità e quantità dei rifiuti asportati: che ve ne fossero non è contestato neppure dal ricorrente ed è stato comunque provato – alla stregua di quanto riferito dalla gravata pronuncia – dalle deposizioni acquisite nonché dalle summenzionate analisi svolte dalla S.r.l. Marta Renato.
E, trattandosi di analisi eseguite in epoca di gran lunga anteriore alla trattativa sfociata nella vendita all’Artemide S.r.l. e alla successiva instaurazione del presente processo, è del tutto fuor di luogo sostenere che le stesse si sarebbero dovute effettuare in contraddittorio, per altro proprio con la stessa persona che – come riferito dal teste Monaci – le aveva commissionate (cioè lo Z. ).
Ancora priva di pregio è la doglianza secondo cui la gravata pronuncia avrebbe sottovalutato la perizia che aveva accertato la falsità della firma del ricorrente apposta in calce alla dichiarazione di non contaminazione proveniente dalla sua stessa società e che ciò avrebbe fatto venir meno uno degli artifici in cui si sarebbe concretizzata la truffa.
In realtà, i giudici d’appello hanno solo evidenziato che, ad ogni modo, l’odierno ricorrente sapeva della suddetta – mendace – dichiarazione di non contaminazione (quanto meno perché, giova ribadire, risultava espressamente menzionata dall’attestazione dell’ARPA) e, ciò nonostante, se ne è avvalso in sede di trattativa.
Né l’allografia della firma in discorso incide sul tenore del capo di imputazione sub a) dell’editto accusatorio (concernente la truffa contrattuale), che correttamente indica quale artificio l’avvalersi consapevolmente di una attestazione falsa, non già l’averla materialmente formata o indotta.
2- II motivo che precede sub b), benché fondato, è irrilevante perché la memoria della querelante Ci. depositata ad integrazione della deposizione dibattimentale da lei già resa ha costituito soltanto uno dei tanti elementi – e non certo il più importante – valutati dalla Corte territoriale a carico dell’odierno ricorrente per giungere alla conclusione che egli sapeva della presenza di scorie inquinanti nei terreni venduti: si vedano quanto meno, nella ricostruzione effettuata dai giudici di merito, la deposizione del teste M. e gli accertamenti eseguiti dalla S.r.l. Marta Renato su incarico dello stesso Z. ; d’altronde, lo stesso ricorso ammette che l’imputato sapeva dell’esito delle indagini commissionate a detta società, limitandosi a svalutare la circostanza con il dire che egli non le avrebbe poi meglio “approfondite”.
Ciò dimostra che la c.d. “prova di resistenza” non conduce ad esiti diversi (sull’applicabilità della c.d. “prova di resistenza” anche in sede di legittimità e sulla necessità che il ricorso per cassazione debba illustrare, a pena di inammissibilità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione d’un elemento probatorio a carico del ricorrente v., ex aliis, Cass. Sez. III n. 3207 del 2.10.14, dep. 23.1.15; Cass. Sez. V n. 37694 del 15.7.08, dep. 3.10.08).
3- Il motivo che precede sub e) è infondato perché – come sopra già anticipato – la garanzia doveva intendersi come riferita all’inesistenza di scorie, a prescindere dal fatto che esse richiedessero, poi, interventi di bonifica propriamente detti o mera rimozione dei rifiuti. E che lo Z. sapesse che sui terreni vi erano metalli pesanti quanto meno da rimuovere e da analizzare è circostanza pacifica e comunque logicamente accertata dalla sentenza della Corte territoriale.
Pertanto, come riportato dai giudici di merito con apprezzamento non più suscettibile di essere rimesso in discussione in sede di legittimità, da parte del ricorrente non vi era alcuna erronea supposizione dell’esistenza del reato: il reato c’era e l’autore ne era consapevole.
La presenza di scorie inquinanti sui terreni de quibus era emersa ed era conosciuta dal ricorrente ancor prima del contratto di vendita che è all’origine del presente processo e ciò grazie agli accertamenti eseguiti dalla S.r.l. Marta Renato su incarico – si badi – dello stesso Z. (ancorché con relativo onere economico sopportato, infine, dal teste Monaci), presenza poi ribadita da ulteriori elementi di accusa (come, ad esempio, dalla deposizione del teste C. ).
Ad ogni modo essa non è neppure negata dal ricorrente, che si limita a lamentare di non conoscere quantità e qualità delle scorie rimosse e a sottolineare che esse non avevano richiesto altro che una mera attività di rimozione e non di vera e propria bonifica tecnicamente intesa (ma sull’irrilevanza di tale distinzione ai fini della configurabilità del delitto in oggetto si è già detto sopra).
4- Ancora da disattendersi è il motivo che precede sub d): il dato decisivo – deve rimarcarsi – è che assai prima delle trattative sfociate nel contratto che è all’origine del presente processo il ricorrente sapeva della presenza, nei terreni, di metalli pesanti e potenzialmente inquinanti, circostanza da lui artatamente taciuta e, anzi, addirittura esclusa con apposita clausola contrattuale.
Ne consegue che, sempre in virtù della prova di resistenza, sono sostanzialmente ininfluenti gli accertamenti tecnici poi eseguiti dall’ARPA e dalla CESILAB da cui è emersa l’effettiva presenza dei metalli pesanti menzionati nel capo d’accusa, accertamenti pur riferiti dai testi come meri dati storici (e, in questi limiti, utilizzabili).
5- È da rigettarsi anche il motivo che precede sub e), che ripropone l’ennesimo nuovo apprezzamento in punto di fatto delle risultanze processuali, questa volta allo scopo di escludere l’aggravante dell’art. 61 n. 7 c.p. opponendo al dato storico-documentale delle fatture relative alle operazioni di rimozione delle scorie quello meramente ipotetico-valutativo costituito dalla stima del c.t.p. Dott. P. (che, per di più, di tutta la vicenda ha avuto una cognizione meramente cartolare, come segnalato dalla sentenza impugnata).
A ciò si aggiunga che nemmeno ipotizzare un danno di “soli” 150.000,00 Euro (tale è l’ordine di grandezza ipotizzato in ricorso sulla scorta delle considerazioni del c.t.p. Dott. P. ) basterebbe ad escludere l’aggravante in questione.
6- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi. Consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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