Sull’ordine di integrazione del contraddittorio in appello ex art. 95, comma 3, cod. proc. …
Consiglio di Stato, sez. VI, decisione 23 luglio 2015, n. 3652.
L’art. 95, comma 3, Cod. proc. amm. prevede, infatti, che il giudice disponga l’integrazione del contraddittorio solo se l’impugnazione non è stata proposta, come doveva esserlo, nei confronti di tutte le parti necessarie. La disposizione fa testuale riferimento all’ipotesi in cui si è in presenza di una causa inscindibile o di cause tra loro dipendenti e, quindi, all’ipotesi in cui la sentenza deve essere impugnata nei confronti di tutte le parti della precedente fase. Ricorrendo tale situazione, l’ordine di integrazione del contraddittorio (e la conseguente improcedibilità dell’impugnazione ove l’integrazione del contraddittorio non avvenga nel termine fissato) serve ad assicurare l’unitarietà dell’atto che disciplina i rapporti fra le più parti, che deve essere tale per tutte, ovvero la sentenza pronunciata in sede di impugnazione ovvero, se è mancata l’integrazione del contraddittorio, la sentenza impugnata. Tale esigenza di integrazione del contraddittorio non sussiste, invece, nel caso in cui a non essere destinataria della notificazione dell’impugnazione in appello sia una parte che era parte non necessaria del giudizio di primo grado nel senso sopra chiarito (una parte, cioè, rispetto alla quale non si configura una causa inscindibile ovvero cause tra loro dipendenti).
È principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui il soggetto partecipe in primo grado di un ricorso collettivo non è parte necessaria nel giudizio di appello (Cons. Stato, Sez. V, 11 aprile 1988, n. 208), dovendo escludersi che la proposizione di un ricorso collettivo in prime cure comporti la possibilità di configurare le persone fisiche, che come tali hanno agito in giudizio, in modo artificiosamente e inscindibilmente unitario (Cons. Stato, Sez. V, 28 marzo 2008, n. 1334). Le loro posizioni sostanziali sono simili ma non interferenti e collegate, sicché ciascuno mantiene la disponibilità della propria azione senza condizionare l’altrui, pur di fatto avendo in prime cure esercitato tutti contestualmente le rispettive azioni. Tale situazione dà, quindi, luogo ad un litisconsorzio facoltativo (non necessario o unitario), con la conseguenza che il ricorso in appello proposto da alcuni soltanto dei ricorrenti originari è ammissibile non essendovi alcun litisconsorzio necessario tra i predetti appellanti e tutti i ricorrenti originari, che, stimando di non aver più interesse a dare ulteriore corso al giudizio, hanno ritenuto di non impugnare la sentenza.
Consiglio di Stato, sez. VI, decisione 23 luglio 2015, n. 3650.
Il ricorso in appello non può limitarsi ad una generica riproposizione degli argomenti dedotti in primo grado, quando gli stessi sono stati puntualmente disattesi dal giudice di prime cure, ma deve contenere specifiche censure contro la sentenza, atteso che la mera riproposizione dei motivi di primo grado si giustifica solo se il TAR non ha esaminato i motivi o li ha esaminati con argomenti palesemente non pertinenti o generici, potendo in siffatta ipotesi il ricorrente limitarsi a contestare sinteticamente la mancanza, non pertinenza o genericità della motivazione, e riproporre i motivi originari; ne consegue che il grado di specificità dei motivi di appello va parametrato e vagliato alla luce del grado di specificità della sentenza contestata, e pertanto una critica generica o una lagnanza generica sull’ingiustizia della sentenza non è adeguata e ammissibile se la sentenza confuta puntualmente i motivi di cui al ricorso di primo grado (cfr. Cons. Stato, A.P., n. 10/2011; più di recente, IV, n. 5661/2014; V, n. 1859/2014; vedi anche, V, n. 5083/2014 e n. 5956/2013).