Molestie sul posto di lavoro
La Cassazione penale affronta il tema delle molestie sul posto di lavoro
Suprema Corte di Cassazione III Sezione Penale
Udienza del 14/10/2015 – deposito il 17/12/2015 Sentenza n. 49645
Testo della sentenza
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SQUASSONI Claudia – Presidente –
Dott. AMORESANO Silvio – rel. Consigliere –
Dott. ACETO Aldo – Consigliere –
Dott. GENTILI Andrea – Consigliere –
Dott. MENGONI Enrico – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
V.D., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 17/12/2013 della Corte di Appello di Roma;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Silvio Amoresano;
udito il P.M., in persona del S. Proc. Gen. SALZANO Francesco, che ha
concluso, chiedendo il rigetto del ricorso;
uditi i difensori, avv.ti De Ceglia Nunzia e Krogh Massimo, che hanno
concluso, chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 17/12/2013, confermava la sentenza di Tribunale di Roma, emessa in data 16/04/2010, con la quale V.D. era stato condannato alla pena di anni 3 e mesi 4 di reclusione per il reato di cui all’art. 61 c.p., n. 11 e art. 609 bis cod. pen., riconosciuta la circostanza attenuante del fatto di minore gravità con criterio di prevalenza sulla contestata aggravante.
Premetteva la Corte territoriale che, secondo la ricostruzione dei fatti operata dal Tribunale, C.L.A. era stata assunta, nel (OMISSIS), come barista presso il bar “(OMISSIS)”, sito in (OMISSIS), di proprietà e gestito dal V..
Fin dai primi giorni la ragazza era stata fatta oggetto di pesanti apprezzamenti ed “avances” da parte del datore di lavoro.
In data (OMISSIS) la C., essendo entrata nella stanza del V. per chiedere alcuni giorni di ferie, aveva notato che, repentinamente, il predetto aveva chiuso la porta a chiave; dopo aver aperto la cerniera dei pantaloni, l’aveva immobilizzata, toccandole le parti intime (infilando la mano nelle mutandine e poi tastandole il seno).
Nell’immediatezza, per la vergogna, non si era confidata con nessuno, ma era stata vista dal direttore del locale, R., mentre piangeva, subito dopo che, divincolatasi, era fuggita dalla stanza.
Il giorno successivo, accusando febbre e forti dolori al petto nel punto in cui il V. aveva esercitato una forte pressione per bloccarla, si era recata al pronto soccorso, dove era stata refertata una “addominalgia”, giudicata guaribile in quattro giorni.
Tanto premesso e dopo aver riportato la motivazione della sentenza di primo grado, che aveva riconosciuto pienamente attendibile la persona offesa, riteneva la Corte territoriale destituiti di fondamento i motivi di appello.
Assumeva, innanzitutto, che non fosse censurabile l’ordinanza del Tribunale con cui non era stato ammesso il teste n. 6 della lista della difesa, in quanto la testimonianza del prof. M. in ordine al nesso causale tra i fatti esposti dalla querelante e la sintomatologia indicata nel referto, era manifestamente superflua o ininfluente.
Peraltro era onere della parte, presente in udienza, eccepire ex art. 182 cod. proc. pen. l’eventuale nullità del provvedimento.
Nè era necessario, stante la palese irrilevanza della testimonianza, disporre la parziale rinnovazione del dibattimento.
Quanto al “merito”, andava confermato il giudizio di piena attendibilità della parte offesa, che non poteva certo essere inficiato dai rilievi contenuti nell’appello in ordine alle presunte incongruenze, in particolare, sulla collocazione temporale precisa dell’episodio contestato (una certa incertezza in proposito era giustificata dal fatto che esso era stato preceduto da reiterati tentativi).
Peraltro, lo stesso imputato aveva riconosciuto di aver ricevuto nel suo ufficio la C. in data (OMISSIS) (pur adducendo ragioni diverse), per cui diventava irrilevante stabilire l’orario preciso.
Del resto, la rilevazione delle presenze attestava che la C. era entrata alle 15,09 del (OMISSIS), uscendo alle 23,48 (con un’assenza dalle 18,24 alle 19,01); il che si conciliava con la versione dei fatti della p.o..
La dedotta contraddittorietà con le dichiarazioni di altri testi risultava, poi, apparente.
Anche la tesi difensiva in ordine al presunto risentimento della C., per essere stata licenziata, era smentita dal fatto che già prima di presentare formalmente la querela la predetta si era rivolta alle forze dell’ordine per riferire l’accaduto e, peraltro, il licenziamento era avvenuto in data 17/6/2006.
L’attendibilità delle dichiarazioni della parte offesa in ordine al fatto che l’imputato, prima dell’episodio in contestazione, l’avesse chiamata più volte non era smentita neppure dai tabulati (non riguardanti tutte le utenze nella disponibilità dell’imputato).
Infine, il trattamento sanzionatorio risultava congruo ed adeguato all’entità dei fatti.
2. Ricorre per cassazione V.D., a mezzo del difensore, avv. Nunzia De Ceglia, denunciando, con il primo motivo il travisamento della prova in ordine alla disponibilità di altra utenza cellulare, diversa da quella cui facevano riferimento i tabulati prodotti. Del riferimento a tale diversa utenza non vi è traccia nell’interrogatorio e neppure nel verbale di elezione di domicilio. La Corte territoriale, quindi, ha posto a base del suo assunto, per confutare la tesi difensiva (in ordine alla insussistenza delle presunte reiterate molestie telefoniche, di cui aveva parlato la p.o.), una prova inesistente.
Con il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen. e art. 609 bis cod. pen., nonchè la contraddittorietà ed illogicità della motivazione con riferimento alla valutazione del materiale probatorio ed in particolare delle dichiarazioni della p.o..
La Corte territoriale ha ritenuto che le discrasie evidenziate nell’appello fossero soltanto apparenti e,comunque, che esse non inficiassero l’attendibilità della C..
Non ha tenuto conto, però, delle palesi contraddizioni ed incertezze in ordine alla collocazione temporale dell’episodio (tanto che in dibattimento veniva modificata l’imputazione), con grave pregiudizio del diritto di difesa, e del mancato riconoscimento nelle foto dell’ufficio del datore di lavoro.
Con il terzo motivo denuncia la inosservanza dell’art. 192 cod. proc. pen. in tema di valutazione delle prove a discarico e la manifesta illogicità della motivazione.
Partendo da una presunzione di veridicità delle dichiarazioni della p.o., la Corte territoriale non ha tenuto conto del contesto in cui si erano verificati i fatti, liquidando come generica la testimonianza della teste O. in ordine alla lettera di infrazione disciplinare. Una altrettanto parziale e distorta lettura delle risultanze processuali ha effettuato la Corte territoriale anche con riferimento al licenziamento, non considerando che, a prescindere da quello formale (per il quale sono previsti tempi tecnici), fin dal 2/6/2006 vi era stato un sostanziale licenziamento telefonico (come si da, contraddittoriamente, atto in motivazione);
il che giustificava pienamente il risentimento della p.o..
Con il quarto motivo denuncia la violazione dell’art. 125 c.p.p., comma 3, art. 195 c.p.p., comma 1 e art. 495 c.p.p., comma 1 e degli artt. 24 e 111 Cost. e art. 6, comma 1 e art. 3, lett. d) Convenzione EDU, ovvero la mancanza e, comunque, illogicità e contraddittorietà della motivazione.
La Corte territoriale ha ritenuto che le ragioni di esclusione del teste n. 6 della lista fossero desumibili dal tenore dell’intera ordinanza del Tribunale, assumendo, peraltro, che l’eventuale nullità ex art. 125 c.p.p., comma 3, dovesse essere tempestivamente dedotta dalla parte presente.
Ha però eluso il problema posto dalla difesa, dal momento che la irrilevanza e superfluità della escussione del teste era esclusa dalla stessa motivazione della sentenza di primo grado.
Per di più la Corte territoriale, rigettando la richiesta di rinnovazione sul punto dell’istruttoria dibattimentale, non ha tenuto conto che era stata dedotta la violazione dell’art. 495 c.p.p., comma 2, per cui l’ammissibilità della prova andava valutata secondo i criteri rigorosi di cui all’art. 190 cod. proc. pen..
Con il quinto motivo, infine, denuncia la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e dell’attenuante di cui all’art. 609 bis c.p., comma 3, nella massima estensione.
2.1. Con motivi nuovi, depositati in cancelleria in data 15/10/2014, l’avv. Massimo Krogh, altro difensore del V., deduce la manifesta illogicità della motivazione con riferimento al primo motivo di appello sull’assunzione di prova decisiva.
La Corte territoriale, pur riconoscendo che il Tribunale, senza giustificazione, aveva escluso l’ammissione del teste n. 6 (il consulente prof. M.), ne avalla poi la decisione con motivazione tautologica. Eppure emergeva dallo stesso contenuto del referto medico che la somministrazione di un farmaco per dolori addominali non fosse compatibile, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte, con la descrizione dell’episodio fatta dalla C..
L’assunto della p.o. in ordine alle pressioni al petto ed al conseguente dolore sternale doveva, pertanto, ritenersi privo di ogni riscontro.
Deduce, poi, l’illogicità manifesta e l’apparenza della motivazione in ordine ai criteri logico-giuridici di valutazione delle dichiarazioni della persona offesa.
La Corte territoriale fornisce una motivazione soltanto apparente ovvero in contrasto con i criteri comuni della logica in ordine ai rilievi contenuti nell’atto di appello quanto alle discrasie circa il giorno e l’ora del presunto abuso sessuale, alla mancanza di ricordo dell’ufficio dell’imputato, alle modalità della presunta aggressione, al comportamento tenuto immediatamente dopo, finendo così per dare apoditticamente credito all’attendibilità delle dichiarazioni accusatorie.
Denuncia altresì la illogicità, contraddittorietà e carenza della motivazione in ordine alle prove contrarie addotte dalla difesa (in particolare le testimonianza O. e P.), escludendone la credibilità in modo tautologico e senza tener conto o replicando in modo non congruo ai rilievi svolti con l’atto di appello in ordine al risentimento nutrito dalla C. nei confronti del V. per essere stata prima destinataria di una contestazione disciplinare e poi licenziata. Incongrua ed in contrasto con le risultanze processuali è la motivazione anche in ordine ai tabulati telefonici prodotti dalla difesa che smentivano l’assunto delle reiterate telefonate fatte dal V..
Infine, deduce la carenza ed illogicità della motivazione in relazione alla determinazione della pena, avendo, ancora una volta,la Corte distrettuale fatte proprie, senza alcuna autonoma valutazione e senza tener conto dei rilievi difensivi, le determinazioni del Tribunale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.
2. Va preliminarmente esaminata (attenendo all’acquisizione del materiale probatorio) la doglianza in ordine alla mancata ammissione di teste n. 6 della lista della difesa.
Venendo denunciata, in proposito, la violazione di norme processuali (art. 125 c.p.p., comma 3, art. 195 c.p.p., comma 1 e art. 495 c.p.p., comma 1), la Cassazione è giudice anche del fatto, per cui è consentito l’accesso agli atti.
Con la lista testi, depositata nei termini di cui all’art. 468 cod. proc. pen., la difesa indicava (al n.6) il prof. dott. M. L.T. “nella sua qualità di consulente tecnico, affinchè venga esaminato in merito al possibile nesso causale tra i fatti narrati dalla querelante e la sintomatologia dalla medesima riferita, così come riportato nel referto medico datato 02/06/2006, nonchè sugli altri eventuali segni che la medesima avrebbe dovuto riportare a seguito della descritta aggressione”.
Il Tribunale, dichiarato aperto il dibattimento, provvedeva, sulle richieste di prova delle parti, con la seguente ordinanza: “ammette i mezzi di prova del P.M., ammette la produzione documentale, ammette i testi 1, 2 e 5 ed un teste a scelta tra il 3 ed il 4 della lista della difesa” (cfr. verb. ud. 30/11/2007).
Dopo l’espletamento dei mezzi di prova ammessi, all’udienza del 19/03/2010, come si legge nel verbale, veniva dichiarata, “su accordo delle parti”, chiusa l’istruttoria dibattimentale.
2.1. Tanto premesso in fatto, è opportuno ricordare, innanzitutto, che, in un sistema processuale come quello vigente, caratterizzato dalla dialettica delle parti, alle quali compete l’onere di allegare le prove a sostegno delle rispettive richieste, il giudice deve limitarsi a valutare soprattutto la pertinenza della prova al “thema decidendum”. Ogni diversa valutazione, collegata alla attendibilità della prova e quindi al “risultato” della stessa, esula dai poteri del giudice (l’art.190 prevede invero che le prove sono ammesse a richiesta di parte) e finirebbe per espropriare le parti del diritto alla prova. Tale diritto alla prova non è, però, “assoluto”, ponendo lo stesso legislatore dei limiti: il giudice è tenuto infatti ad escludere le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o irrilevanti (art. 190 c.p.p., comma 1).
Tali principi sono stati reiteratamente ribaditi dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui “il diritto all’ammissione della prova indicata a discarico sui fatti costituenti oggetto della prova a carico, che l’art. 495 c.p.p., comma 2, riconosce all’imputato, incontra limiti precisi nell’ordinamento processuale, secondo il disposto degli artt. 188, 189 e 190 cod. proc. pen. e, pertanto, deve armonizzarsi con il potere-dovere, attribuito al giudice del dibattimento, di valutare la liceità e la rilevanza della prova richiesta, ancorchè definita decisiva dalla parte, onde escludere quelle vietate dalla legge e quelle manifestamente superflue o irrilevanti” (cfr. Cass. pen. sez. 2 n. 2350 del 21/12/2004).
Per quanto riguarda il giudizio di secondo grado è altrettanto indubitabile che “…il giudice d’appello, dinanzi al quale sia dedotta la violazione dell’art. 495 c.p.p., comma 2, deve decidere sull’ammissibilità della prova secondo i parametri rigorosi previsti dall’art. 190 c.p.p., mentre non può avvalersi dei poteri meramente discrezionali riconosciutigli dal successivo art. 603 in ordine alla valutazione di ammissibilità delle prove non sopravvenute al giudizio di primo grado” (cfr. Cass. sez. 6 n. 761 del 10/10/2006).
Nel caso, invece, non venga dedotta la violazione dell’art. 495 cod. proc. pen., il giudice di appello, in presenza di una richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, a norma dell’art. 603 c.p.p., comma 1, dispone l’integrazione istruttoria solo se ritenga che il processo non possa essere deciso allo stato degli atti, oppure, se le nuove prove sono sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nei limiti previsti dall’art. 495, comma 1.
La parte che non abbia fatto richiesta dei mezzi di prova nei limiti e nei termini di cui all’art. 495 può (a parte il caso di ammissioni di prove ex art. 507 cod. proc. pen. cui non può non far seguito l’ammissione delle eventuali prove contrarie), successivamente, vedersi riconosciuto il diritto alla prova soltanto se si tratti di prove nuove o scoperte dopo il giudizio di primo grado. In tal caso (e solo in tal caso) vi è una sorta di “restituzione in termini”, venendo la parte rimessa nella situazione preesistente; sicchè il giudice deve decidere sull’ammissione della prova secondo i criteri di cui al combinato disposto dell’art. 495 c.p.p., comma 1 (richiamato dall’art. 603 c.p.p., comma 2) e art. 190 cod. proc. pen., potendola quindi rigettare soltanto se “manifestamente superflua o irrilevante”.
2.2. Risulta dagli atti, come si è visto in precedenza, che l’ammissione del consulente prof. M. era stata avanzata tempestivamente, essendo stato il predetto indicato al n.6 della lista testi della difesa, per cui, indubitabilmente, si verte nella ipotesi prevista dall’art. 495 cod. proc. pen.. Il Tribunale avrebbe dovuto, quindi, provvedere, sulla richiesta, a norma dell’art. 190 c.p.p., comma 1, (escludendola, conseguentemente, solo se vietata dalla legge ovvero manifestamente superflua o irrilevante).
I Giudici di primo grado, invece, non ammettevano il n.6 della lista testi della difesa, senza motivare sulle ragioni della esclusione.
La difesa, però, non solo non proponeva alcuna riserva in ordine a siffatta esclusione o opposizione all’ordinanza del Tribunale, ma, una volta esaurito l’espletamento dei mezzi istruttori ammessi, manifestava il suo consenso alla chiusura dell’istruttoria dibattimentale (cfr. verb. ud. 19/3/2010 – “su accordo delle parti si dichiara chiusa l’istr. dib.le”). E, dando siffatto consenso, mostrava palesemente, una volta preso atto delle risultanze processuali acquisite fino a quel momento, di non avere più interesse all’escussione del prof. M.. Tale comportamento attestava, infatti, in modo non equivoco, che, si riteneva (secondo una valutazione riservata alla insindacabile strategia difensiva) non più utile o addirittura contrario ai fini difensivi l’esame del consulente.
L’esame dei testi addotti si configura, invero, come mezzo di prova rimesso alla disponibilità della parte, per cui essa deve manifestare il suo interesse alla effettiva assunzione della prova richiesta.
Il diritto alla prova, previsto dall’art. 190 c.p.p., nel vigente sistema processuale, caratterizzato dalla dialettica e dall’impulso delle parti, implica, infatti, anche il principio di disponibilità della prova medesima.
In presenza, pertanto, di un comportamento concludente di rinuncia alla prova richiesta (e non ammessa), la parte non può poi lamentare la violazione dell’art. 495 cod. proc. pen..
In tal senso si è pronunciata già in precedenza questa Corte (cfr.
sez. 3 n. 46325 di 26/10/2011, secondo cui, in presenza di un comportamento concludente di rinuncia alla prova, non determina alcuna nullità la mancata decisione del giudice sulla richiesta di ammissione alla prova contraria: si è ritenuto, così che il comportamento del difensore che, dopo aver chiesto l’ammissione di un teste a “controprova” su circostanze processualmente rilevanti, a fronte della mancata decisione del giudice – che si era riservato di provvedere all’esito del dibattimento – aveva omesso di reiterare la richiesta, prima che questi si ritirasse in camera di consiglio per decidere”; e che non produce alcuna nullità la mancata assunzione dei mezzi di prova già ammessi, quando non sia stata manifestata alcuna riserva alla chiusura dell’istruzione dibattimentale da parte di chi li aveva richiesti (dovendosi ritenere che vi abbia rinunciato implicitamente), nè opposizione delle altre parti processuali (cfr.
Cass. sez. 1 n. 9628 del 3/7/1998 – Dose e, successivamente, Cass. sez. 3 n. 9135 del 24/1/2008 – Fontolan).
Nè il Tribunale aveva inteso esercitare il potere ex art. 507 cod. proc. pen., non ravvisandone la necessità; nè tale potere ha inteso esercitare la Corte ai sensi dell’art. 603 c.p.p., comma 1.
Ed è pacifico (una volta escluso, come si è visto, che si vertesse nell’ipotesi di violazione dell’art. 495 cod. proc. pen.) che la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale debba vincere la presunzione di completezza dell’indagine probatoria dibattimentale del giudizio di primo grado; essa quindi ha carattere eccezionale e deve essere giustificata dall’assoluta necessità dell’assunzione della nuova prova ai fini della decisione.
La Corte territoriale ha adeguatamente argomentato in ordine alla superfluità ed irrilevanza, tenuto conto delle prove dichiarative e documentali acquisite, della escussione del prof. M.; il referto medico del 2/6/2006 era stato, peraltro, posto dal primo giudice solo come uno degli ulteriori elementi di conferma alla versione della p.o. e non assumeva, quindi, il carattere delle decisività (pag. 6 sent. app.).
3. Quanto agli altri motivi di ricorso ed ai motivi nuovi, che, ad evitare inutili ripetizioni, vengono esaminati congiuntamente, va, innanzitutto ricordato che, nell’ipotesi di conferma della sentenza di primo grado, le due motivazioni si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre far riferimento per giudicare della congruità della motivazione.
Allorchè, quindi, le due sentenze concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo (cfr. ex multis Cass. sez. 1 n. 8868 del 26/6/2000 – Sangiorgi, Rv. 216906; cfr. anche Cass. sez. un. n. 6682 del 4/2/1992, Rv. 191229; Cass. sez. 2 n. 11220 del 13/1/1997, Ambrosino, Rv. 209145; Cass. sez. 6 n. 23248 del 7/2/2003, Zanotti, Rv. 225671; Cass. sez. 6 n. 11878 del 20/1/2003, Vigevano, R. 224079;
Cass. sez. 3 n. 44418 del 16/7/2013, Argentieri, Rv. 257595).
E’, altresì, pacifico (cfr. ex multis Cass. Sez. 6 n. 35346 del 12/6/2008, Bonarrigo, Rv. 241188) che se l’appellante “si limita alla mera riproposizione di questioni di fatto già adeguatamente esaminate e risolte dal primo giudice oppure di questioni generiche, superflue o palesemente inconsistenti, il giudice dell’impugnazione ben può motivare per relationem e trascurare di esaminare argomenti superflui, non pertinenti, generici o manifestamente infondati.
Quando, invece, le soluzioni adottate dal giudice di primo grado siano state specificamente censurate dall’appellante sussiste il vizio di motivazione, sindacabile ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), se il giudice del gravame si limita a respingere tali censure e a richiamare la contestata motivazione in termini apodittici o meramente ripetitivi senza farsi carico di argomentare sulla fallacia e inadeguatezza o non consistenza del motivi di impugnazione”, (così anche Cass. Sez. 6 n. 49754 del 21/11/2012, Casulli, Rv. 254102;
Cass. sez. 6 n. 28411 del 13/11/2012, Santapaolo, Rv. 256435).
Anche più di recente è stato ribadito che, nel giudizio di appello, è consentita la motivazione “per relationem” alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui le censure formulate dall’appellante non contengano elementi di novità rispetto a quelle già condivisibilmente esaminate e disattese dalla sentenza richiamata (Cass. sez. 2 n. 30838 del 19/3/2013, Autieri, Rv. 257056).
Il Giudice di appello, quindi, nella ipotesi in cui l’Imputato, con precise considerazioni, svolga specifiche censure su uno o più punti della prima pronuncia, non può limitarsi a richiamarla, ma deve rispondere alle doglianze prospettate. In caso contrario, viene meno la funzione del doppio grado di giurisdizione ed è privo di ogni concreto contenuto il secondo controllo giurisdizionale” (cfr. Cass. pen. Sez. 3 n. 24252 del 13/5/2010).
3.1.La Corte territoriale si è attenuta a tali consolidati principi, rinviando per relationem alla condivisibile motivazione della sentenza di primo grado e limitandosi ad argomentare in ordine alle specifiche censure contenute nei motivi di appello.
In effetti già il Tribunale, attraverso un approfondito esame delle risultanze processuali, aveva ritenuto pienamente attendibili le dichiarazioni accusatorie delle persona offesa, che trovavano peraltro conforto in numerosi elementi esterni, e disatteso, in quanto destituita di ogni fondamento, la tesi difensiva.
Aveva, in primo luogo, esaminato la versione dei fatti fornita dalla C., rilevando come il suo racconto fosse preciso, lucido, spontaneo, senza salti logici in ordine al contenuto ed alla successione degli avvenimenti; nè risultava che la p.o. avesse mai manifestato segni di mancanza di equilibrio o assunto comportamenti anomali, tali da poter fare ipotizzare accuse fantasiose o deliberatamente calunniose (pag. 12 sent. Trib.).
L’attenta analisi delle dichiarazioni della C. induceva, quindi, il Tribunale a ritenere intrinsecamente credibili le dichiarazioni accusatorie.
Le dichiarazioni della persona offesa dal reato possono, invero, essere assunte quali fonti del convincimento senza necessità di riscontri esterni. Il giudice, tuttavia, non può sottrarsi ad un esame dell’attendibilità del dichiarante, che deve essere particolarmente rigoroso quando siano carenti dati oggettivi emergenti dagli atti, che confortino l’assunto accusatorio.
E’ quindi necessario, stante l’interesse che ha la parte offesa verso l’esito del giudizio, vagliare le sue dichiarazioni con ogni cautela, compiendo un esame particolarmente rigoroso anche attraverso una conferma di altri elementi probatori (cfr. ex multis Cass. Sez. Un. n. 41461 del 19/7/2012).
Ed infatti il Tribunale non si limitava ad un rigoroso esame delle dichiarazioni della p.o., ma sottoponeva a verifica, attraverso l’individuazione di elementi esterni, l’intero racconto a partire dai denunciati apprezzamenti ed “avances”, posti in essere fin dai primi giorni di svolgimento dell’attività lavorativa, da parte del V., e dai tentativi ripetuti di ottenere la disponibilità della C., e per finire, stante l’opposizione di quest’ultima ad assecondare le richieste sessuali del datore di lavoro, all’aggressione violenta.
L’iter argomentativo del Tribunale era coerente e lucido e dava conto di tutta la delineata “progressione” attraverso un puntuale riferimento alle risultanze processuali.
Evidenziava il Tribunale che l’attrazione fisica provata nei confronti della C. ed i ripetuti tentativi per vincere ogni resistenza della donna emergessero dalle testimonianze dei colleghi di lavoro, che, pur non potendo, per evidenti motivi, apertamente schierarsi contro colui che era anche il loro datore di lavoro, avevano finito per confermare, negli aspetti essenziali, la versione dei fatti fornita dalla C..
E così P. ” R.”, direttore del locale “(OMISSIS)” aveva confermato che più volte la donna si era lamentata del fatto che il V. “ci provava con lei” (pag. 9); T.V., cameriere nel locale, pur precisando di non ricordare bene i fatti e pur tra palesi reticenze, aveva però affermato di aver accompagnato più volte a casa la C., la quale si lamentava delle avances del V., con il quale, però, non voleva avere alcun rapporto extralavorativo. Aggiungeva il teste che, una volta, aveva notato la C. agitata ed in preda al pianto e si era offerto di riaccompagnarla a casa e che nell’occasione, pur non avendo prestato molta attenzione “..preoccupato per la propria vita personale…”, la donna si era lamentata dell’imputato, il quale, successivamente, “forse” gli aveva anche fatto capire che non avrebbe più dovuta riaccompagnarla a casa (pag. 11 sent). Infine S. ” R.”, addetto al bar, aveva riferito di aver visto più volte la C. piangere.
Dell’interesse del V. nei confronti della p.o. e dei ripetuti ed insistenti approcci per vincere ogni resistenza della predetta, aveva riferito anche Cr.Lo., cugino della C., e che aveva fatto da tramite per consentirne l’assunzione da parte del V., e quindi non certamente prevenuto nei confronti dell’imputato. Il teste aveva ricordato che la congiunta, più volte, gli aveva riferito delle “avances” del datore di lavoro e che, anzi, in un’occasione aveva visto un sms, con cui il V. invitava la donna ad uscire con lui (pag. 10 sent.).
Risultavano quindi provati tutti gli approcci, posti in essere dall’imputato durante il periodo in cui la C. era rimasta a lavorare al “(OMISSIS)”, e la opposizione di essa a quei tentativi; basterebbe già questo a rendere insostenibile la tesi difensiva di accuse calunniose come ritorsione al licenziamento subito, risultando l’aggressione sessuale come un evidente “sviluppo” dei comportamenti pregressi.
Il Tribunale, inoltre, aveva individuato plurime conferme (derivanti soprattutto dalle dichiarazioni dei testi) in relazione all’aggressione sessuale denunciata e riportata nella contestazione.
S.L., in relazione a quanto accaduto il giorno (OMISSIS), aveva riferito di aver visto la C. scendere in direzione e, dopo circa dieci minuti, l’aveva vista risalire “piangendo e molto nervosa”, tanto che si era offerto di coprirle il turno fino alle 16,30; dopo essere stata tranquillizzata, la donna aveva raccontato che “il signor V. l’aveva spinta, l’aveva toccata sopra i vestiti” (pag.15). Anche P.A. aveva visto la C. uscire dall’ufficio del V., di corsa ed in preda al pianto, ed il S. di aver ricevuto, sempre nell’immediatezza, le confidenze della donna in ordine alle molestie sessuali appena subite.
Il che dimostrava, inequivocabilmente, che le accuse di cui alla denuncia non erano certo frutto di una meditata vendetta postuma per il licenziamento subito (il palese turbamento della vittima, nella contestualità della lamentata aggressione, non dava spazio ad una ricostruzione alternativa dei fatti).
Dopo aver richiamato anche la testimonianza di Cr., il quale aveva riferito che la cugina il giorno successivo gli aveva riferito dell’aggressione subita, e dell’incontro avuto con il V., che aveva negato ogni addebito), e dopo aver indicato nel referto medico del 2.6.2006 un ulteriore elemento di riscontro, il Tribunale esaminava la tesi difensiva, ritenendo del tutto giustificate e comunque non decisive alcune incongruenze nel racconto della p.o., ed escludendo che il presunto licenziamento potesse aver determinato accuse calunniose.
A parte il fatto che le risultanze processuali, in precedenza esaminate,deponevano nel senso di una piena conferma dell’ipotesi accusatoria, secondo la stessa prospettazione difensiva, la decisione del licenziamento sarebbe stata da ascrivere ad una iniziativa di O.M., responsabile della Cooperativa “Miss Clean” (e quindi non poteva determinare alcun risentimento nei confronti del V.). Inoltre, il licenziamento stesso era avvenuto a distanza di tempo e la lettera di contestazione disciplinare, datata 1.6.2006, risultava priva di data certa (sicchè, sottolineava il Tribunale, non poteva escludersi che fosse “stata confezionata a posteriori”- pag. 13 sent.).
3.2. In presenza di una motivazione, così completa e dettagliata e che aveva esaminato già i rilievi difensivi, la Corte territoriale legittimamente ha rinviato ad essa per relationem, limitandosi ad argomentare in ordine alle specifiche censure contenute nei motivi di appello.
Nel confermare il giudizio di piena attendibilità delle dichiarazioni della p.o., ha rilevato, con argomentazioni non affette da illogicità, che le incongruenze evidenziate dall’appellante non fossero tali da inficiare detta attendibilità, con riferimento soprattutto alla collocazione temporale dell’episodio (pag. 7, 8) ed alle modalità della condotta posta in essere dall’imputato (pag. 9).
Ha, poi, esaminato la tesi alternativa prospettata dal V. di una denuncia sostanzialmente calunniosa, rilevandone l’assoluta inconsistenza.
Il presunto risentimento della C. per il licenziamento non aveva trovato alcuna conferma, nè attraverso la testimonianza della O., nè di quella di S.M.; a parte i rilievi in ordine all’assoluta approssimazione della contestazione disciplinare, senza data certa e con riferimento ad un episodio indicato come avvenuto in una data chiaramente errata (30/5/2007) e del quale nessun teste aveva parlato (pag. 9).
Ha comunque, significativamente, evidenziato la Corte territoriale che la tesi difensiva era clamorosamente smentita dal fatto, inequivocabilmente emerso dall’istruttoria dibattimentale, che la querela, pur se proposta formalmente in data 8/6/2006, era stata preceduta da un colloquio con il Comandante della Stazione CC di Marina di Tor San Lorenzo in data 3/6/2006, al quale era stata riferita l’aggressione sessuale subita. Il licenziamento formale recava, invece, la data del 17/6/2006 (pag. 10).
E, del resto, come aveva già sottolineato il primo giudice, la conferma della veridicità delle dichiarazioni accusatorie in ordine all’aggressione subita era attestata da tutti gli episodi pregressi, processualmente dimostrati, attestanti le reiterate molestie poste in essere dal V. in danno della C..
3.3. Il ricorrente, attraverso una formale denuncia di vizi di motivazione, richiede sostanzialmente una rivisitazione delle risultanze processuali, con riferimento, in particolare, alle dichiarazioni della p.o., delle quali ancora una volta vengono ribadite incongruenze e contraddizioni quanto alla collocazione temporale dell’episodio, alle modalità della aggressione, alla mancata descrizione dell’ufficio del V., al risentimento per il licenziamento.
Ma il controllo demandato alla Corte di legittimità va esercitato sulla coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso i quali si sviluppa il tessuto argomentativo del provvedimento impugnato, senza alcuna possibilità di rivalutare in una diversa ottica, gli argomenti di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento o di verificare se i risultati dell’interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo.
Anche a seguito della modifica dell’art. 606 c.p.p., lett. e), con la L. n. 46 del 2006, il sindacato della Corte di Cassazione rimane di legittimità: la possibilità di desumere la mancanza, contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione anche da “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”, non attribuisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare criticamente le risultanze istruttorie, ma solo quello di valutare la correttezza dell’iter argomentativo seguito dal giudice di merito e di procedere all’annullamento quando la prova non considerata o travisata incida, scardinandola, sulla motivazione censurata (cfr. Cass. pen. sez. 6 n. 752 del 18/12/2006; Cass. pen. sez. 2 n. 23419/2007 – Vignaroli; Cass. pen. sez. 6 n. 25255 del 14/2/2012).
3.4. Oppure lamenta il ricorrente l’omesso esame di singoli rilievi contenuti nell’atto di appello, con particolare riferimento al comportamento censurabile e poco professionale tenuto dalla C. sul posto di lavoro.
Tutti tali rilievi risultano, però, implicitamente disattesi dalle complessive motivazioni dei Giudici di merito, dalle quali emerge che le accuse della C. trovavano precisi riscontri nelle risultanze processuali e non erano quindi certo frutto di risentimento per motivi legati all’attività lavorativa.
Ed è assolutamente pacifico che, nella motivazione della sentenza il giudice di merito non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata” (Cass. pen. Sez. 4 n. 1149 del 24.10.2005 – Mirabilia; Cass. pen. sez. 6 n. 20092 del 4.5.2011).
Anche più di recente è stato ribadito che, in sede di legittimità, non è censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame, quando risulti che la stessa sia stata disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata (Cass. pen. sez. 1 n. 27825 del 22.5.2013).
3.5. Quanto infine al travisamento della prova in ordine alla disponibilità di altra utenza telefonica da parte dell’imputato, oltre quella cui facevano riferimento i tabulati prodotti, erra, indubbiamente, la Corte territoriale quando afferma che il V. avesse in uso anche l’utenza n. (OMISSIS) (tale utenza infatti, come risulta dal verbale di elezione di domicilio allegato al ricorso, era in uso al difensore).
Ma tale errore non scardina certamente la motivazione della sentenza, sia perchè i contatti telefonici del V. con la p.o.
risultavano dalla testimonianza Cr., sia perchè, comunque, il prevenuto avrebbe potuto utilizzare altre utenze a lui non intestate;
infine, e soprattutto, perchè le risultanze processuali attestano, come si è visto, in modo inconfutabile, i tentativi dell’imputato di ottenere la “disponibilità” della C..
4. Infine la Corte territoriale ha correttamente esercitato il potere discrezionale nella determinazione della pena, evidenziando innanzitutto che non vi era alcuna contraddizione tra il riconoscimento dell’ipotesi attenuata di cui all’art. 609 bis c.p., u.c., ed il diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Anche se queste ultime potevano, all’epoca di commissione del fatto, essere concesse anche solo per il mero stato di incensuratezza (circostanza, peraltro non sussistente, essendo intervenuta condanna anche se per un delitto non grave), ha ritenuto la Corte che non ricorressero elementi di positiva valutazione (oltre quelli già posti a base della concessione della circostanza attenuante speciale) per riconoscere l’invocato beneficio. Risultava, piuttosto, come già sottolineato dal primo giudice, la gravità della condotta posta in essere dall’imputato che reiteratamente aveva insidiato la dipendente, anche sul posto di lavoro, tentando di approfittare delle condizioni di debolezza (anche economica) della stessa.
E, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, non è necessaria una analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, essendo sufficiente la indicazione degli elementi ritenuti decisivi e rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri.
Il preminente e decisivo rilievo accordato all’elemento considerato implica infatti il superamento di eventuali altri elementi, suscettibili di opposta e diversa significazione, i quali restano implicitamente disattesi e superati. Sicchè anche in sede di impugnazione il giudice di secondo grado può trascurare le deduzioni specificamente esposte nei motivi di gravame quando abbia individuato, tra gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen., quelli di rilevanza decisiva ai fini della connotazione negativa della personalità dell’imputato e le deduzioni dell’appellante siano palesemente estranee o destituite di fondamento (cfr. Cass. pen. sez. 1 n. 6200 del 3/3/1992; Cass. sez. 6 n. 34364 del 16/6/2010).
L’obbligo della motivazione non è certamente disatteso quando non siano state prese in considerazione tutte le prospettazioni difensive, a condizione però che in una valutazione complessiva il giudice abbia dato la prevalenza a considerazioni di maggior rilievo, disattendendo implicitamente le altre. E la motivazione, fondata sulle sole ragioni preponderanti della decisione non può, purchè congrua e non contraddittoria, essere sindacata in cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (cfr. Cass. pen. sez. 6 n. 7707 del 4/12/2003).
4.1. La Corte territoriale ha adeguatamente argomentato anche in ordine alla mancata applicazione della circostanza attenuante speciale nella massima estensione, facendo riferimento a: “la violenza esercitata, la ripetitività delle molestie sessuali, la qualità soggettiva dell’imputato e l’abuso della sua posizione..” (pag. 12).
5. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 14 ottobre 2015.
Depositato in Cancelleria il 17 dicembre 2015
Normativa di riferimento:
Articolo 609 bis Codice Penale
Violenza sessuale
Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.
Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:
1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.
Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi
Articolo 61 Codice Penale
Circostanze aggravanti comuni
Aggravano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali [578 3, 579 3], le circostanze seguenti:
1) l’avere agito per motivi abietti o futili [576 1 n. 2, 577 1 n. 4];
2) l’aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato [576 1 n. 1; c.p.p. 4, 12 lett. c];
3) l’avere, nei delitti colposi [43], agito nonostante la previsione dell’evento;
4) l’avere adoperato sevizie, o l’aver agito con crudeltà verso le persone [576 1 n. 2, 577 1 n. 4];
5) l’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa;
6) l’avere il colpevole commesso il reato durante il tempo in cui si è sottratto volontariamente alla esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione, spedito per un precedente reato [576 1 n. 3, 576 2; c.p.p. 296];
7) l’avere, nei delitti contro il patrimonio [624-648; c. nav. 1135-1149], o che comunque offendono il patrimonio, ovvero nei delitti determinati da motivi di lucro [481 2], cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità;
8) l’avere aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso;
9) l’aver commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto;
10) l’avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico servizio, o rivestita della qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello Stato, ovvero contro un agente diplomatico o consolare di uno Stato estero, nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio;
11) l’avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione, o di ospitalità [646 3, 649];
11-bis) l’avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale;
11-ter) l’aver commesso un delitto contro la persona ai danni di un soggetto minore all’interno o nelle adiacenze di istituti di istruzione o di formazione;
11-quater) l’avere il colpevole commesso un delitto non colposo durante il periodo in cui era ammesso ad una misura alternativa alla detenzione in carcere;
11-quinquies) l’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all’art. 572 del c.p., commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza.
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