Dolo diretto e omicidio preterintenzionale
Dolo diretto e omicidio preterintenzionale
Corte di Cassazione, sez. I Penale
Sentenza 25 febbraio 2014 – 6 febbraio 2015, n. 5676
Presidente Cortese – Relatore Tardio
Cassazione, sentenza, penale, omicidio, preterintenzionale, dolo, dolo diretto, lesione, attenuanti, aggravantim rito, pena, pena accessoria, minorenni, minori, minore, futili motivi
La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, che si riporta al link in fondo all’articolo, ha esaminato un caso di omicidio che gli ha permesso di ribadire alcuni interessanti principi di diritto riguardanti quegli elementi relativi al suddetto reato e all’applicazione o meno delle aggravanti/attenuanti del caso.
Il GUP del Tribunale per i minorenni di Milano, all’esito del giudizio abbreviato, ha dichiarato l’imputato responsabile del reato di omicidio, aggravato dalla circostanza dei futili motivi. L’omicidio sarebbe stato commesso colpendo la vittima per due volte con un frammento di bottiglia rotta e provocandogli una lesione all’arteria carotide comune e una duplice lacerazione della vena giugulare interna, che a loro volta avevano prodotto una profusa emorragia esterna e un danno multi-organo con arresto delle funzioni vitali.
Veniva condannato, applicata la diminuente per la minore età, riconosciute le attenuanti generiche in ragione di prevalenza sulla contestata aggravante e operata la riduzione per la scelta del rito, alla pena di anni dieci di reclusione, oltre alla pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque.
La Corte di appello di Milano – sezione minori, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha ridotto la pena ad anni nove di reclusione, maggiormente valorizzando la incidenza delle riconosciute attenuanti generiche.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato per mezzo del suo difensore, chiedendone l’annullamento sulla base di unico motivo, con il quale denuncia mancanza e manifesta illogicità della motivazione sotto i profili della qualificazione del fatto, della formale violazione dell’art. 192 cod. proc. pen. e della graduazione della pena.
Secondo il ricorrente, la Corte di appello, nel ritenere integrato il dolo omicidiario, che suppone la rappresentazione e la volizione di tutti gli elementi costitutivi dell’omicidio volontario (condotta, evento e causalità materiale), non ha tenuto conto dei principi in tema di qualificazione del reato a forma libera, valorizzando esclusivamente gli effetti prodotti dall’azione criminosa, senza valutare il comportamento complessivo di esso ricorrente e della vittima nel contesto in cui è maturato l’alterco/scontro tra loro, il crescendo di toni e violenza, la loro posizione reciproca e la loro condizione psico-fisica.
Per la difesa dell’imputato, dunque, la sentenza impugnata è incorsa in incongruenze argomentative anche nella valutazione dei dati probatori obiettivi (quali il contenuto della consulenza medico-legale e il mancato ritrovamento del collo di bottiglia rotto), che ha sminuito o valorizzato eccessivamente sulla base di mere congetture e di letture non univoche delle emergenze acquisite.
Per la Corte, “le doglianze sviluppate con l’unico motivo attengono al denunciato vizio motivazionale che connota lo sviluppo argomentativo della decisione impugnata nella disposta conferma della sussistenza dal punto di vista probatorio, già ritenuta dal primo Giudice, dei dati necessari per l’integrazione del dolo omicidiario, inteso come rappresentazione e volizione, in capo al ricorrente, degli elementi costitutivi della fattispecie tipica dell’omicidio volontario ascritto ai sensi dell’art. 575 cod. pen., individuabili nella condotta, nell’evento e nella causalità materiale.
Il dedotto vizio, nella prospettazione difensiva, è rilevabile sotto plurimi profili, correlati alla contestata esclusiva valorizzazione degli effetti dell’azione criminosa, senza la valutazione del comportamento complessivo dell’imputato e della vittima nel contesto in cui è maturato l’alterco/scontro fra essi, il crescendo dei toni e di violenza che lo ha connotato, il rapido passaggio dalle aggressioni verbali alle aggressioni fisiche e all’uso di strumenti atti a offendere, la posizione reciproca e la condizione psico-fisica degli stessi; alla lettura del contenuto della consulenza medico-legale e all’apprezzamento delle espressioni tecniche utilizzate dal perito e delle dichiarazioni dei testi; al mancato ritrovamento dello strumento lesivo, identificato nel presunto collo di bottiglia, utilizzato dall’imputato nell’ultima fase dello scontro, e non conosciuto nelle sue potenzialità/caratteristiche morfologiche; alla disamina dell’unicità dell’azione lesiva e alla riconducibilità a unico intervento con corpo tagliente dei due rilevati differenti momenti lesivi.
Tali profili, rimarcati come dimostrativi della non coerenza della scelta interpretativa dei Giudici del merito di ritenere che la condotta del ricorrente sia stata teleologicamente diretta verso la morte della vittima, sono funzionali, posta l’ammessa volontarietà dell’azione del medesimo volta a percuotere e a ferire, alla tesi difensiva che la morte della vittima abbia costituito un evento non voluto e il reato debba essere qualificato ai sensi dell’art. 584 cod. pen.”
Inoltre, continua la Corte, “l’infondatezza delle mosse censure consegue al rilievo che la valutazione organica delle risultanze processuali, che si assume illogica e manchevole, quanto alla qualificazione del reato, e formalmente contrastante con le regole inferenziali, di cui all’art. 192 cod. proc. pen., preposte alla formazione del convincimento del giudice, è stata correttamente ed esaustivamente condotta nel giudizio di merito secondo un iter logico-argomentativo che, coerente in diritto ai principi costantemente affermati da questa Corte e non incongruo ai dati fattuali disponibili e utilizzati, ha fornito una persuasiva disamina della vicenda, dando conto delle linee interpretative seguite e rappresentando le ragioni significative della decisione adottata a fronte del compiuto vaglio delle deduzioni difensive fatte oggetto dei motivi di appello.
La Corte di merito, infatti, procedendo dalla preliminare analisi della tesi difensiva posta a fondamento della chiesta riconduzione del fatto/reato, ascritto all’imputato quale omicidio volontario, nella cornice dell’art. 584 cod. pen., ha ritenuto non fondata tale tesi, escludendo, in continuità argomentativa con la decisione del G.u.p., la configurabilità nel caso di specie di un omicidio preterintenzionale.”
Si legge in sentenza “Richiamato il condiviso orientamento di legittimità sul tema dell’elemento soggettivo del delitto di omicidio preterintenzionale, costituito – nel rispetto dei principi di imputabilità del reato e della corretta interpretazione degli artt. 43 e 584 cod. pen. e in coerenza con la ratio dell’istituto – dal dolo di percosse o lesioni, assorbendo la disposizione di cui all’art. 43 cod. pen. la prevedibilità di evento più grave nell’intenzione di risultato (Sez. 5, n. 40389 del 17/05/2012, dep. 15/10/2012, P.C. in proc. Perini e altri, Rv. 253357), la Corte ha rimarcato che l’intento diretto a percuotere la vittima o a causarle solo lesioni (sì che l’evento morte, pur legato da nesso di causalità alla condotta dell’agente, non sia voluto), deve essere accertato, quando la lesione, che lo ha prodotto, sia stata arrecata per mezzo di oggetto atto a produrlo, avendo essenziale riguardo al tipo di oggetto utilizzato, alla reiterazione eventuale e alla direzione della condotta lesiva, alla parte corporea sede di organi vitali avuta di mira e/o concretamente attinta.
Tale percorso metodologico è del tutto coerente con la costante affermazione di questa Corte, che rimette l’accertamento dell’elemento psicologico in cui risiede il criterio distintivo tra l’omicidio volontario (in cui la volontà dell’agente è costituita dall’animus necandi, ossia dal dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale) e l’omicidio preterintenzionale (in cui la volontà dell’agente è diretta a percuotere o a ferire la vittima, con esclusione assoluta di ogni previsione dell’evento morte, che si determina per fattori esterni) alla valutazione rigorosa di elementi oggettivi desunti dalle concrete modalità della condotta (tra le altre, Sez. 1, n. 35369 del 04/07/2007, dep. 21/09/2007, Zheng, Rv. 237685; Sez. 1, n. 30304 del 30/06/2009, dep. 21/07/2009, Montagnoli, Rv. 244743; Sez. 1, n. 40202 del 13/10/2010, dep. 15/11/2010, Gesuito, Rv. 248438; Sez. 5, n. 36135 del 26/05/2011, dep. 05/10/2011, S. e altri, Rv. 250935), e demanda al giudice di attenersi – al fine di valutare l’esistenza del dolo omicidiario e di verificare se l’evento sia stato escluso o sia stato visto dall’agente come possibile, come probabile o come certa conseguenza diretta della sua azione – a una indagine sintomatica, e cioè agli elementi fattuali indicativi all’esterno della direzione teleologica della volontà dell’agente verso la morte della vittima secondo le regole di esperienza e l’id quod plerumque accidit (tra le altre, Sez. 1, n. 12954 del 29/01/2008, dep. 27/03/2008, Li e altri, non massimata sul punto; Sez. 1, n. 13596 del 28/09/2011, dep. 12/04/2012, Corodda, non massimata sul punto), quali, in via esemplificativa, il comportamento antecedente e susseguente al reato, la natura del mezzo usato, le parti del corpo della vittima attinte, la reiterazione dei colpi (Sez. 1, n. 15023 del 14/02/2006, dep. 02/05/2006, Piras, Rv. 234129, che espressamente riconduce l’omicidio ai reati a forma libera, intesi come fattispecie casualmente orientate), e ancora la direzione e l’intensità dei colpi, la distanza del bersaglio, le situazioni di tempo e di luogo che favoriscono l’azione cruenta (Sez. 1, n. 28175 del 08/06/2007, dep. 16/07/2007, Marin, Rv. 237177), e ulteriormente la micidialità del mezzo usato, la reiterazione delle lesività, la mancanza di motivazioni alternative dell’azione (Sez. 1, n. 5029 del 16/12/2008, dep. 05/02/2009, De Montis, Rv. 243370)”.
Leggi il testo della sentenza
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