Diffamazione tramite Facebook
Diffamazione tramite Facebook
Corte di Cassazione sezione V Penale
sentenza 7 ottobre 2016 – 20 gennaio 2017, n. 2723
Presidente Nappi – Relatore De Gregorio
Nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione, di cui alla sentenza in fondo all’articolo, i Supremi Giudici hanno avuto modo di affrontare ancora una volta la diffamazione attraverso i social network.
Divulgare offese tramite Facebook può costare una condanna per diffamazione aggravata e, nella sentenza n. 2723/2017 la Cassazione spiega chiaramente che il suddetto social network è in grado di raggiungere un elevato numero di persone e, pertanto, potenzialmente idoneo alla configurazione della fattispecie di reato.
Da alcuni anni ormai gli ermellini hanno specificato, in varie occasioni, la direzione da seguire nel caso in cui si faccia un uso improprio del citato sito internet, pertanto, nessun dubbio sulla vicenda esaminata, quando ci si lascia andare a commenti “poco carini” si rischia una condanna per diffamazione.
Nel caso di specie, l’imputata aveva inviato una serie di messaggi in cui si rivolgeva alla vittima appellandola “cornuta“
Testo della sentenza
Corte di Cassazione sezione V Penale
sentenza 7 ottobre 2016 – 20 gennaio 2017, n. 2723
Presidente Nappi – Relatore De Gregorio
Ritenuto in fatto
Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Trieste ha parzialmente riformato la decisione di primo grado nei confronti dell’imputata O. , che l’aveva condannata alla pena di giustizia per il reato di diffamazione, riqualificandolo ai sensi del comma 3 dell’art 595 cp, riconoscendo le attenuanti generiche, rideterminando la pena in Euro 350 di multa e confermando la condanna al risarcimento danni. Epoca del fatto (omissis).
1.Avverso la decisione ha proposto ricorso la difesa, che ha lamentato col primo motivo il vizio di motivazione circa l’individuazione dell’imputata come autrice degli sms ritenuti diffamatori, apparentemente provenienti da tale M.M. . La Corte aveva confermato la statuizione del primo Giudice sul punto, trascurando di considerare che l’indirizzo IP riferibile al predetto pseudonimo poteva essere in realtà in uso anche alle persone che abitavano con l’imputata. 1.1 Nel secondo articolato motivo è stata dedotta l’errata applicazione dell’art 595 cp, poiché il Giudice di appello avrebbe giudicato integrata la diffamazione, avvenuta tramite l’inserimento del messaggio offensivo sul profilo Facebook della persona offesa, D.L. , che in quel periodo era accessibile a tutti, come riferito dalla stessa al processo. Secondo il ricorrente la sentenza sarebbe, così, fondata su una valutazione soggettiva e non su un accertamento obbiettivo, come avrebbe dovuto essere in considerazione del fatto che la comunicazione con più persone è il presupposto del reato.
1.2 Per altro verso la motivazione non avrebbe esaminato specificamente l’elemento soggettivo del reato, omettendo di considerare che, dato il contesto in cui i fatti si erano verificati, l’imputata avrebbe potuto avere solo l’intenzione di chiarire con la persona offesa il suo destino sentimentale e non di offenderla, né ridicolizzarla.
2. Con motivi aggiunti depositati in Cancelleria il 20 Settembre la difesa ha lamentato la mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art 131 bis cp, che la Corte territoriale avrebbe potuto applicare, essendo intervenuta la sua decisione dopo l’entrata in vigore della legge.
2.1 Sotto altro profilo ed in relazione al secondo motivo è stata posta la questione dell’uso della parola cornuta e del suo reale significato offensivo se rivolto nei confronti di una donna, essendo tradizionalmente rivolto agli uomini, e, perdendo – secondo il ricorrente – il consueto contenuto offensivo, che comunemente coinvolge il maschio, nel caso che destinataria ne sia una donna. All’odierna udienza il PG,dr D., ha concluso per l’annullamento senza rinvio e l’avvocato S. per l’imputata si è riportato ai motivi.
Considerato in diritto
Il ricorso è infondato.
1. Il primo motivo di ricorso solo in apparenza si riferisce al denunziato vizio di motivazione mentre in realtà svolge censure sul merito dell’apprezzamento probatorio effettuato dai Giudici di appello. La motivazione resa è pienamente plausibile ed ineccepibile sotto il profilo logico, avendo valorizzato lo stringente argomento per cui la mittente dei messaggi incriminati, in cui D.L. era definita cornuta, aveva una relazione sentimentale, come in realtà capitava all’imputata O. , col fidanzato della destinataria delle espressioni offensive; inoltre, è stato sottolineato il valore probante del messaggio in cui era stato chiesto all’amica della parte civile di intercedere presso di lei per la rimessione della querela, che era partito dal profilo facebook della giudicabile, persona che a tale atto aveva un chiaro interesse. Sulle base di tali inequivocabili elementi l’autrice delle comunicazioni denigratorie è stata coerentemente individuata nell’attuale imputata.
2. Quanto al secondo motivo, occorre premettere che la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto – in base a dati di comune esperienza – che la divulgazione di un messaggio tramite facebook, ha, per la natura di questo mezzo, potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, che, del resto, si avvalgono del social network proprio allo scopo di instaurare e coltivare relazioni interpersonali allargate ad un gruppo di frequentatori non determinato; pertanto se il contenuto della comunicazione in siffatto modo trasmessa è di carattere denigratorio, la stessa è idonea ad integrare il delitto di diffamazione. In tal senso Sez. 1, Sentenza n. 24431 del 28/04/2015 Cc. (dep. 08/06/2015) Rv. 264007: La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone.
2.1 L’accessibilità del profilo facebook perlomeno da parte delle persone autorizzate ad entrare in relazione con il suo titolare, di regola in numero consistente per le caratteristiche intrinseche dello strumento di comunicazione, è stato il dato di fatto sul quale la Corte triestina ha fondato l’esistenza del presupposto della diffusione dei messaggi di cui alle imputazioni tra più soggetti e non, come vorrebbe il ricorso, la parola della teste persona offesa.
2.2 Quanto alla doglianza circa la dedotta mancata analisi dell’elemento soggettivo del reato, va osservato che la sentenza risulta, in diritto, in armonia col consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale per il delitto di diffamazione è necessario e sufficiente il dolo generico, che si verifica tramite l’uso consapevole di espressioni che nel contesto sociale di riferimento sono ritenute offensive, per il significato che oggettivamente assumono. Così, Sez. 5, Sentenza n. 8419 del 16/10/2013 Ud. (dep. 21/02/2014) Rv. 258943; Sez. 5, Sentenza n. 4364 del 12/12/2012 Ud. (dep. 29/01/2013) Rv. 254390. In fatto la spiegazione circa l’esistenza del dolo in capo all’imputata appare perfettamente congrua, avendo la Corte tenuto conto dell’intero compendio probatorio emerso e del rapporto sentimentale che univa O. al compagno della persona offesa, per cui l’imputata era da ritenersi ben consapevole, date le peculiarità della situazione che stava vivendo, non solo dell’efficacia denigratoria dell’espressione “cornuta” ma anche delle conseguenze devastanti sul piano della relazione interpersonale tra i due fidanzati.
2.3. La versione proposta dalla difesa implica un’interpretazione alternativa sul fatto – come tale non ammissibile in questa fase – ed è stata adeguatamente confutata in sentenza, con la perspicua osservazione che se l’intenzione dell’imputata fosse stata quella di informare la donna tradita, lo avrebbe fatto in ogni altro possibile modo riservato e non tramite il social network, per
definizione mezzo divulgativo di informazioni verso una quantità indeterminabile di persone.
3.Riguardo al motivo aggiunto col quale è stata lamentata la mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art 131 bis cp, deve rispondersi che proprio perché la decisione di appello è intervenuta dopo l’entrata in vigore della legge con la quale è stata introdotta, sarebbe stato onere del ricorrente sollecitarla al Giudice di merito come motivo o anche in fase di conclusioni, ostando alla sua adozione nella presente fase il divieto di cui agli artt 606, comma terzo e 609 comma secondo cpp. In tal senso Sez. 6, Sentenza n. 20270 del 27/04/2016 Ud. (dep. 16/05/2016) Rv. 266678: In tema di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, la questione dell’applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. non può essere dedotta per la prima volta in cassazione, ostandovi il disposto di cui all’art. 609 comma secondo cod. proc. pen., se il predetto articolo era già in vigore alla data della deliberazione della sentenza d’appello. (In motivazione, la S.C. ha precisato che la questione postula un apprezzamento di merito precluso in sede di legittimità, ma che poteva essere proposto al giudice procedente al momento dell’entrata in vigore della nuova disposizione, come motivo di appello ovvero almeno come sollecitazione in sede di conclusioni del giudizio di secondo grado).
3.1 Quanto all’aspetto col quale il ricorrente ha proposto una diversa interpretazione della parola incriminata, che perderebbe il contenuto offensivo se rivolta ad una donna in quanto comunemente diretta con significato dispregiativo e ridicolizzante verso il maschio, deve osservarsi che, trattandosi di una rivisitazione nel merito di un giudizio dato nei precedenti gradi del processo, esso è inammissibile in questa fase. 3.2 D’altra parte non può fare a meno di cogliersi il senso discriminate nei confronti del genere femminile ed in contrasto col principio di uguaglianza tra i sessi di cui all’art 3 Costituzione, dal quale il discorso difensivo sembra ispirato, potendo sottendere il presupposto di una diversa considerazione culturale e sociale tra uomo e donna.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Altre sentenze su:
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