Canna fumaria, presunzione di pericolosità e distanza di sicurezza
Canna fumaria, presunzione di pericolosità e distanza di sicurezza
Corte di Cassazione Sezione II Civile
Sentenza 10 maggio – 30 giugno 2016, n. 13449
Presidente Bianchini – Relatore Falabella
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 3 dicembre 2002 G.B. conveniva M.D. davanti al Tribunale di Nocera Inferiore, chiedendo la conferma del provvedimento d’urgenza che aveva ordinato l’arretramento della canna fumaria, posta al servizio dello stabile del convenuto, fino al rispetto della distanza di un metro e mezzo dal confine e la condanna di controparte al risarcimento del danno.
Si costituiva M.D. , il quale chiedeva il rigetto della domanda e, in via riconvenzionale, la condanna dell’attrice ad arretrare le tegole di copertura del tetto, il balcone del piano primo e la soletta di controtendenza del secondo piano; chiedeva altresì che fosse ordinato all’attore di rimuovere il manufatto di sostegno di un’insegna pubblicitaria ed il condizionatore apposto sul muro del fabbricato.
Pronunciando sentenza, il Tribunale di Nocera Inferiore condannava il convenuto ad arretrare la canna fumaria e le tegole di copertura del tetto, oltre che ad apporre un dispositivo idoneo a permettere il deflusso dell’acqua piovana.
M.F. , nella qualità di erede di M.D. , proponeva appello contro la sentenza di cui sopra, chiedendone la riforma.
La Corte di appello di Salerno, nel contraddittorio delle parti, con sentenza depositata il 14 febbraio 2011, rigettava l’appello.
A sostegno della decisione adottata la Corte di appello di Salerno, per quanto qui rileva, evidenziava che: con il ricorso proposto ex articolo 700 c.p.c. G.B. aveva lamentato, con riferimento alla canna fumaria, l’intollerabilità delle immissioni e il pericolo di danno alla salute, con la conseguenza che la domanda cautelare non avrebbe potuto essere ricondotta allo schema delle azioni possessorie o nunciatorie; G.B. aveva denunciato, tra l’altro, che il mancato rispetto delle distanze legali e la presunzione di pericolosità posta dall’art. 890 c.c. non poteva essere superata in ragione della mera conformità del manufatto alle prescrizioni dello strumento urbanistico comunale o della tecnica; il distanziamento della canna fumaria costituiva l’unico accorgimento idoneo a scongiurare ogni pericolo per il fondo confinante; la pronuncia di rigetto relativa all’arretramento dell’insegna luminosa trovava fondamento del rilievo per cui l’originario attore, nel termine di cui all’art. 183 c.p.c., aveva lamentato soltanto la violazione della disciplina in tema di distanze.
Contro detta sentenza M.F. propone ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi.
G.B. non ha svolto difese.
Motivi della decisione
Con il primo motivo M.F. lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., nonché il difetto, l’erroneità e l’illogicità della motivazione, in quanto la corte territoriale non si era pronunciata sull’eccezione di inammissibilità e di improcedibilità dell’azione cautelare per difetto del requisito della residualità.
Il motivo è inammissibile.
Il provvedimento cautelare, che come è noto, non è ricorribile per cassazione, è destinato, per sua natura, ad essere superato dalla decisione di merito, sicché, ove questa, riconoscendo l’esistenza del diritto cautelato, confermi in sentenza le statuizioni del provvedimento stesso, la parte non può opporre, nelle successive fasi di impugnazione, l’insussistenza delle condizioni che ne legittimavano la pronuncia, ma potrà solo dolersi delle statuizioni contenute nella sentenza. D’altro canto, non si vede, nemmeno in astratto, quale interesse possa avere la parte a una pronuncia nel senso indicato, visto che la sorte delle spese relative alla fase cautelare, in ipotesi di rigetto, in fase di gravame, della domanda di merito sarà regolata dalla stessa sentenza che riformi la pronuncia del primo giudice, e visto, altresì, che l’art. 669 novies, 3 co. disciplina compiutamente le misure necessarie al ripristino della situazione preesistente nel caso in cui sia accertata l’inesistenza del diritto cautelato.
Il motivo, peraltro, veicola censure che sono mal poste.
Infatti, in tema di errores in procedendo, non è consentito alla parte interessata di formulare, in sede di legittimità, la censura di omessa motivazione, spettando alla Corte di cassazione accertare se vi sia stato, o meno, il denunciato vizio di attività, attraverso l’esame diretto degli atti, indipendentemente dall’esistenza o dalla sufficienza e logicità dell’eventuale motivazione del giudice di merito sul punto; né il mancato esame, da parte di quel giudice, di una questione puramente processuale può dar luogo ad omissione di pronuncia, configurandosi quest’ultima nella sola ipotesi di mancato esame di domande o eccezioni di merito (Cass. 10 novembre 2015, n. 22952).
Per mera completezza può osservarsi, peraltro, che la corte di Salerno ha esaminato la questione oggetto del motivo ed ha rigettato l’eccezione già proposta della ricorrente con l’atto di appello. Ha osservato, in proposito, che nel ricorso ex articolo 700 c.p.c., G.B. aveva pure denunciato l’intollerabilità delle immissioni di fumo e di calore e il pericolo di danno alla salute e sottolineato come “sotto il profilo della residualità la domanda cautelare non avrebbe potuto essere ricondotta nel suo complesso allo schema delle azioni possessorie o nunciatorie ovvero di altra azione cautelare tipica”. Conclusione, questa, che trova conferma nell’arresto di questa S.C. per cui la facoltà di chiedere i provvedimenti di urgenza secondo la previsione degli artt. 700 ss. c.p.c. può essere riconosciuta al proprietario di un immobile ove si verta in tema di tutela interinale del diritto di possedere e godere del bene il cui pieno esercizio sia impedito o minacciato da immissioni provenienti dal fondo del vicino (Cass. 30 gennaio 1995, n. 1089).
Con il secondo motivo è denunciata la violazione dell’art. 112 c.p.c., nonché la violazione ed errata applicazione dell’art. 700 c.p.c. in relazione agli articoli 844 e 1170 c.c. e l’erroneità, illogicità, contraddittorietà della motivazione, poiché la ricorrente in primo grado avrebbe dovuto dolersi delle immissioni eccedenti la normale tollerabilità, proponendo una azione di manutenzione ex artt. 703 c.p.c. e 1170 c.c., in base all’art. 844 c.c..
Inoltre, ad avviso della ricorrente, il provvedimento cautelare era stato concesso per una ragione diversa da quelle addotte da controparte e senza che il pregiudizio paventato fosse imminente ed irreparabile.
Vale, in proposito, quanto sopra osservato in ordine alla inammissibilità di motivi che investano, in via indiretta, la pronuncia relativa al provvedimento cautelare.
Il motivo, nelle due censure che lo compongono, non ha oltretutto fondamento.
La prima censura non coglie nel segno, dal momento che non è dedotto che nel giudizio di merito l’odierna intimata abbia lamentato una lesione del possesso: è anzi esposto, nel ricorso, che G.B. ebbe ad agire fin dall’origine qualificandosi “proprietaria” dell’immobile contiguo a quello di M.D. . Sicché non si vede per quale ragione la medesima intimata, che non aveva lamentato una turbativa del possesso, avrebbe dovuto proporre un’azione di manutenzione (piuttosto che introdurre un ricorso ex art. 700 c.p.c.).
La seconda censura ha carattere di novità, dal momento che la sentenza di appello non si occupa delle questioni prospettate nel ricorso per cassazione, né il ricorrente chiarisce quando esse vennero sottoposte al giudice del gravame. Qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675; cfr. pure: Cass. 28 luglio 2008, n. 20518; Cass. 26 febbraio 2007, n. 4391; Cass. 12 luglio 2006, n. 14599; Cass. 2 febbraio 2006, n. 2270).
Con il terzo motivo la ricorrente deduce la violazione e l’errata applicazione degli artt. 890 e 2729 c.c., nonché degli artt. 112, 113, 115 e 116 c.p.c. e l’erronea, illogica, omessa ed insufficiente motivazione della decisione.
Assume che l’attrice in primo grado non aveva mai lamentato il fatto che la canna fumaria potesse essere toccata con la mano, riscaldarsi o condurre sostanze infiammate. Inoltre, le immissioni erano contenute e la presunzione di pericolosità della canna fumaria era da considerare superata.
Nemmeno tale motivo è da accogliere.
Il fatto che non fosse stato specificamente dedotto in primo grado che la canna fumaria potesse essere toccata con la mano, riscaldarsi o condurre sostanze infiammate è privo di rilievo, poiché l’intimata, come riconosciuto pure dalla ricorrente, aveva lamentato che il suo modo di vivere quotidiano e la sua salute erano turbati a causa delle immissioni di fumo, calore, odori sgradevoli ed esalazioni considerate eccessive, situazioni nelle quali possono essere fatte rientrare, con evidenza, le circostanze accertate dal Tribunale di Nocera Inferiore prima e dalla Corte di appello di Salerno poi.
Occorre osservare che il vizio di extrapetizione o di ultrapetizione ricorre solo quando il giudice, interferendo col potere dispositivo delle parti e pronunciando oltre i limiti del petitum e delle eccezioni hinc ed inde dedotte, ovvero su questioni che non siano state sollevate e che non siano rilevabili d’ufficio, attribuisca alla parte un bene non richiesto, e cioè non compreso nemmeno implicitamente o virtualmente nella domanda proposta. Ne consegue che tale vizio deve essere escluso qualora il giudice, contenendo la propria decisione entro i limiti delle pretese avanzate o delle eccezioni proposte dalle parti, e riferendosi ai fatti da esse dedotti, abbia fondato la decisione stessa sulla valutazione unitaria delle risultanze processuali, pur se in base ad argomentazioni o considerazioni non prospettate dalle parti medesime (Cass. 31 gennaio 2011, n. 2297; Cass. 11 ottobre 2006, n. 21745).
Quanto alla violazione dell’articolo 890 c.c., esso dispone: “Chi presso il confine, anche se su questo si trova un muro divisorio, vuole fabbricare forni, camini, magazzini di sale, stalle e simili, o vuol collocare materie umide o esplodenti o in altro modo nocive, ovvero impiantare macchinari, per i quali può sorgere pericolo di danni, deve osservare le distanze stabilite dai regolamenti e, in mancanza, quelle necessarie a preservare i fondi vicini da ogni danno alla solidità, salubrità e sicurezza”.
La corte territoriale ha evidenziato che, nella specie, non era prevista, dai vigenti strumenti urbanistici, una distanza orizzontale minima tra le canne fumarie e le proprietà aliene.
La costante giurisprudenza di legittimità afferma che il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi dall’articolo 890 c.c., nella cui regolamentazione rientrano anche i comignoli con canna fumaria, è collegato ad una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza medesima, mentre, in difetto di una disposizione regolamentare, si ha una presunzione di pericolosità relativa, che può essere superata ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostri che, mediante opportuni accorgimenti, può ovviarsi al pericolo od al danno del fondo vicino (per tutte: Cass. 22 ottobre 2009, n. 22389; Cass. 6 marzo 2002, n. 3199).
La corte di merito ha correttamente accertato, quindi, che, alla luce della lacuna contenuta nel regolamento edilizio locale, dovesse essere imposto un arretramento della canna fumaria per scongiurare ogni pericolo per il fondo confinante (la cui concreta esistenza era stata acclarata), assumendo, altresì, che l’installazione di accorgimenti con funzione di separazione risultava del tutto inidonea. A tal fine ha evidenziato che l’installazione di un siffatto dispositivo non poteva considerarsi risolutivo visto che l’art. 890 c.c. presume la pericolosità dei camini anche se tra questi ed il fondo del vicino vi sia un muro divisorio. Proposizione, questa, senz’altro congrua, come tale incensurabile in questa sede.
Con il quarto motivo è lamentata la violazione ed errata applicazione degli artt. 115 e 116 c.c. e l’erronea, illogica, omessa e insufficiente motivazione della decisione, poiché la corte territoriale aveva errato nel ritenere che la domanda di tutela ex art. 844 c.c. avanzata con riferimento all’insegna pubblicitaria luminosa fosse stata proposta tardivamente.
Anche tale censura è articolata in modo improprio, in quanto ciò di cui si duole la ricorrente è un vizio processuale, sicché doveva essere fatto valere il motivo di cui all’art. 360, n. 4 c.p.c..
La doglianza è pure inammissibile per violazione del principio di autosufficienza.
Infatti, la Corte di appello di Salerno ha rilevato che l’unica contestazione concernente l’insegna pubblicitaria proposta nel rispetto dei termini di decadenza previsti dal vigente codice di rito (termini ex art. 183 c.p.c.) riguardava la violazione delle distanze legali e non, quindi, il prodursi di immissioni eccedenti la normale tollerabilità.
La ricorrente, peraltro, non ha indicato in quali atti del giudizio, depositati anteriormente allo spirare dei summenzionati termini di decadenza, avrebbe prospettato di aver domandato una tutela ai sensi dell’art. 844 c.c., limitandosi ad affermare di averlo fatto “nel corso del giudizio di primo grado”.
Ebbene, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo, presuppone che la parte, nel rispetto del principio di autosufficienza, riporti, nel ricorso stesso, gli elementi ed i riferimenti atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio processuale, onde consentire alla Corte di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo del corretto svolgersi dell’iter processuale (Cass. 30 settembre 2015, n. 19410; cfr. pure Cass. 10 novembre 2011, n. 23420).
Da quanto rilevato consegue il rigetto del ricorso.
Nulla deve statuirsi in punto di spese, stante la mancata costituzione dell’intimato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
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