Badante, erede e rinuncia all’eredità
Badante, erede e rinuncia all’eredità
Corte di Cassazione sezione Lavoro
Sentenza 8 luglio – 8 ottobre 2015, n. 20190
Presidente Bandini – Relatore De Marinis
La Cassazione, con la sentenza che si riporta di seguito, ha esaminato il caso di una badante che, in seguito alla morte della anziana signora che assisteva, avanzava delle pretese economiche nei confronti dell’erede, un nipote che pero’ aveva rinunciato all’eredità.
Più nello specifico, si chiedeva il pagamento delle differenze retributive maturate in relazione all’asserita spettanza del livello 1° della classificazione dei personale del CCNL per i lavoratori domestici oltre ai ratei di ferie e tredicesima mensilità, indennità di preavviso, TFR nonché ai contributi assicurativi e previdenziali dovuti o al risarcimento del danno da omessa contribuzione.
Testo della sentenza
Corte di Cassazione sezione Lavoro
Sentenza 8 luglio – 8 ottobre 2015, n. 20190
Presidente Bandini – Relatore De Marinis
Svolgimento del processo
Con sentenza del 7 dicembre 2009, la Corte d’Appello di Roma, in riforma della decisione di parziale accoglimento resa dal Tribunale di Roma, rigettava la domanda proposta da G.M. nei confronti di G.D.M., alle dipendenze dei quale, in una con la defunta Sig.ra A. R., zia del medesimo, aveva prestato servizio in qualità di assistente geriatrico e collaboratrice domestica, avente ad oggetto la condanna dei G.D.M., rimasto contumace, al pagamento delle differenze retributive maturate in relazione all’asserita spettanza del livello 1° della classificazione dei personale del CCNL per i lavoratori domestici oltre ai ratei di ferie e tredicesima mensilità, indennità di preavviso, TFR nonché ai contributi assicurativi e previdenziali dovuti o al risarcimento del danno da omessa contribuzione
La decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto, da un lato, il difetto di legittimazione passiva del G.D.M. per aver egli rinunciato all’eredità della Sig.ra R., dall’altro, l’insussistenza di obblighi a suo diretto carico, anche aldilà dell’incertezza della sua vocatio in ius in proprio e non solo per la sua qualità di erede, a motivo del mancato assolvimento da parte della M. dell’onere della prova circa la diretta titolarità del rapporto di lavoro in capo al medesimo.
Per la cassazione di tale decisione ricorre la M., affidando l’impugnazione a tre motivi cui resiste, con controricorso, il G.D.M..
Motivi della decisione
Il primo motivo, con cui la ricorrente imputa alla Corte territoriale la mancata declaratoria di improcedibilità del gravame proposto dalla controparte, per non aver questa dato corso alla notifica del ricorso, tempestivamente depositato, e dei decreto di fissazione dell’udienza nel termine di giorni dieci dalla comunicazione dell’emanazione del decreto medesimo, secondo quanto sancito da questa Corte con la decisione resa a sezioni unite n. 20604 del 30.7.2008, deve ritenersi infondato, tenuto conto che al suddetto arresto interpretativo questa Corte è pervenuta per effetto del radicale mutamento del proprio precedente orientamento (c.d,.”overruling”), intervenuto, tuttavia, in epoca ampiamente successiva alla proposizione del gravame in questione e con carattere di imprevedibilità (per aver agito in modo inopinato e repentino sul consolidato orientamento pregresso), giustificandosi, cosi, una scissione tra il fatto (e cioè il comportamento della parte risultante “ex post” non conforme alla corretta regola dei processo) e l’effetto, di preclusione o decadenza, che ne dovrebbe derivare, con la conseguenza che – in considerazione del bilanciamento dei valori in gioco, tra i quali assume preminenza quello del giusto processo (art. 111 Cost) , volto a tutelare l’effettività dei mezzi di azione e difesa anche attraverso la celebrazione di un giudizio che tenda, essenzialmente, alla decisione di merito – deve escludersi l’operatività della preclusione o della decadenza derivante dall’overruling nei confronti della parte che abbia confidato incolpevolmente (e cioè non oltre il momento di oggettiva conoscibilità dell’arresto nomofilattico correttivo, da verificarsi in concreto) nella consolidata precedente interpretazione della regola stessa, la quale, sebbene soltanto sul piano fattuale, aveva comunque creato l’apparenza di una regola conforme alla legge dei tempo (cfr., ex plurimis, Cass. 11.7.2011 ,n. 15144 e, da ultimo, in termini, Cass. 4.6.2014, n. 12521).
Parimenti infondati devono ritenersi il secondo ed il terzo motivo, che si appalesano connessi, essendo con essi imputato alla Corte territoriale la non conformità a diritto e l’incongruità logica dello statuito difetto di legittimazione passiva del G.D.M., pronunzia inficiata, a detta della ricorrente, dall’omessa considerazione degli elementi di fatto, che la stessa assume non contestati e, comunque, erroneamente non fatti oggetto di accertamento istruttorio, anche valendosi dei ricorso ai propri poteri d’ufficio, da parte della Corte territoriale, attestanti la titolarità, anche diretta, del dedotto rapporto di lavoro in capo al G.D.M..
Ed invero, la censurata statuizione circa il difetto di legittimazione passiva del G.D.M. risulta verificata, non solo in relazione alla documentata rinuncia da parte dei medesimo all’eredità della Sig.ra R., ma, altresì, in relazione a quegli elementi di fatto, dedotti con il ricorso introduttivo, che avrebbero dovuto, nelle intenzioni della ricorrente, comprovare la titolarità diretta dei rapporto in capo al G.D.M. e che, di contro, la Corte territoriale ha rilevato essere privi di supporto probatorio, escludendo che questo, come preteso dalla ricorrente stessa, potesse derivare dalla mancata contestazione degli stessi in prime cure da parte del G.D.M., non potendosi far discendere una simile conseguenza dal suo essere rimasto contumace in quella fase del giudizio o potesse essere rinvenuto valendosi dei propri poteri d’ufficio in difetto di specifica devoluzione al giudice del gravame, da parte dell’appellata vittoriosa in primo grado, anche del riesame delle proprie richieste istruttorie sulle quali il primo giudice non si è pronunciato, richiamando specificamente le difese di primo grado, in guisa da far ritenere in modo inequivocabile di aver riproposto l’istanza di ammissione della prova (cfr. Cass. 27.10.2009, n. 22687 e Cass. 11.2.2011, n. 3376) Il ricorso va, dunque rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per compensi, oltre spese generali al 15% e accessori come per legge.
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