Tentata rapina impropria. Chiarimenti della Cassazione
Tentata rapina impropria. Chiarimenti della Cassazione
Corte di Cassazione II Sezione Penale
Sentenza 16 ottobre – 11 novembre 2014, n. 46412
Presidente Gentile – Relatore Lombardo
Con la sentenza che si riporta al link in fondo alla pagina, la seconda sezione penale della Suprema Corte di Cassazione ha esaminato il caso di un uomo sorpreso a rubare scarpe e vestiti in un supermercato, togliendo dagli stessi il dispositivo anti-taccheggio. L’uomo, colto sul fatto, ha abbandonato la refurtiva sugli scaffali e si è dato alla fuga puntando un coltello verso il commesso ma quest’ultimo, dopo averlo raggiunto, riusciva anche a disarmarlo.
L’uomo è stato quindi chiamato a rispondere del delitto di rapina impropria aggravata dall’uso dell’arma (capo a: artt. 628, commi 2 e 3 n. 1 cod. pen.) e della contravvenzione di porto ingiustificato di coltello (capo b: art. 4 della legge n. 110/1975).
Più nello specifico, l’imputato fu accusato di avere sottratto un paio di scarpe e un paio di pantaloni presso un centro commerciale, prelevandoli dagli scaffali ove erano esposti per la vendita; secondo l’accusa contestata, il prevenuto, dopo aver rimosso il dispositivo antitaccheggio dalla confezione delle scarpe e dopo essere stato sorpreso da una dipendente del negozio, che gli chiese spiegazioni, abbandonò la merce all’interno del magazzino, fuoriuscì dallo stesso e – inseguito da alcuni dipendenti dell’esercizio commerciale – si diede alla fuga nelle campagne circostanti, fino a che – raggiunto – minacciò i suddetti dipendenti con un coltello al fine di procurarsi l’impunità.
Il G.I.P. del Tribunale di Bari ha assolto l’imputato dal delitto di rapina contestato, perché il fatto non sussiste; lo dichiarò, invece, colpevole della contravvenzione di cui al capo b) della rubrica.
Avverso tale pronunzia propose gravame il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari e la Corte di Appello della stessa città, dove l’imputato, dopo la riforma della sentenza di primo grado, venne dichiarato colpevole anche del delitto di rapina impropria di cui al capo a).
La difesa dell’imputato ha proposto quindi ricorso per cassazione lamentando “ l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 628 e 52 cod. pen., 380 e 383 cod. proc. pen., con riferimento alla ritenuta sussistenza della violenza o minaccia al fine di assicurarsi il possesso della cosa mobile altrui ovvero l’impunità; si deduce, in particolare, che l’imputato uscì dal centro commerciale senza portare nulla con sé, sicché l’inseguimento per le campagne da parte dei dipendenti del detto esercizio commerciale, prolungatosi per oltre due chilometri, sarebbe stato slegato dal tentativo di impossessamento compiuto all’interno del grande magazzino; non sarebbe configurabile, così, il delitto di rapina impropria, perché i detti dipendenti non sarebbero stati legittimati a fermarlo per legittima difesa, né – in ogni caso – sarebbero stati sussistenti i presupposti cui la legge subordina la facoltà di arresto in flagranza da parte dei privati;“
Osservano gli ermellini che “secondo la ricostruzione del fatto compiuta dai giudici di merito – l’imputato venne sorpreso dal personale di vigilanza del detto centro commerciale, prima di varcare la barriera delle casse, dopo che aveva rimosso il “dispositivo antitaccheggio” da una scatola di scarpe e il c.d. “codice a barre” dai pantaloni esposti per la vendita; egli – allora – consegnò al personale del negozio la scatola contenente le scarpe, abbandonò poi i pantaloni su uno scaffale e si avviò verso l’uscita., superando le barriere antitaccheggio e determinando l’avvio del sistema sonoro di allarme; uscì, infine, di corsa dal grande magazzino, dandosi alla fuga; inseguito dai dipendenti dell’esercizio commerciale, una volta raggiunto da uno di essi, estrasse un coltello e lo minacciò al fine di procurarsi l’impunità“.
Sempre dalla ricostruzione del fatto compiuta dai giudici di merito, risulta che l’imputato “estrasse il coltello e minacciò il commesso, intimandogli di non avvicinarsi, allorquando – sfinito per la lunga corsa nelle campagne, per circa due chilometri – si fermò, finendo per essere raggiunto dal suo inseguitore“. Dunque, l’imputato non si fermò spontaneamente e non acconsentì a farsi identificare ma, al contrario, minacciò il commesso col coltello in suo possesso proprio per non farsi identificare.
Ora, nel caso di specie, risulta che l’imputato “ripose il coltello non perché spontaneamente decise di farsi identificare, ma perché, essendo minacciato a sua volta dal commesso che alzò un grosso sasso contro di lui per difendersi” e, pertanto, “constatò essere divenuto troppo rischioso per lui proseguire nella condotta criminosa e più utile scendere a patti col commesso, chiedendogli di poter fare una telefonata, con la quale egli tentò di chiedere l’ausilio del collega-amico della polizia di Stato“.
Si legge in sentenza, “invero, nella fattispecie della rapina impropria, di cui all’art. 628 comma 2 cod. pen., l’assicurazione a sé o ad altri del possesso della cosa sottratta o il procurare a sé o ad altri l’impunità non costituiscono eventi del reato, ossia componenti dell’elemento oggettivo del delitto di rapina, ma costituiscono elementi soggettivi del delitto de quo. In particolare, nella rapina impropria, l’elemento soggettivo del reato è costituito, oltre che dal “dolo generico” consistente nella coscienza e volontà di adoperare violenza o minaccia dopo l’illecita sottrazione della cosa mobile, anche dal “dolo specifico”, consistente nella finalizzazione della violenza o della minaccia adoperata verso il definitivo impossessamento della cosa o verso l’ottenimento della impunità.
Poiché l’impossessamento e l’impunità non costituiscono eventi del reato, ma sono componenti del “dolo specifico” richiesto (quali fini dell’azione), è evidente che, perché il reato si consumi, non è necessario che l’agente consegua effettivamente il possesso o l’impunità: è sufficiente che egli abbia agito al fine di conseguire l’uno o l’altro. In altre parole, la rapina impropria si consuma nel momento in cui, dopo la sottrazione della cosa mobile altrui, si adoperi violenza o minaccia ai fini suddetti, senza che sia necessario che i detti scopi siano conseguiti.
Ne deriva che non può parlarsi di tentativo quando, dopo la sottrazione della cosa mobile altrui e dopo l’uso della violenza o della minaccia per procurarsi l’impunità, l’agente venga poi identificato e denunciato, dovendosi ritenere in tal caso il reato consumato.
Nella specie, pertanto, deve escludersi che possa ravvisarsi il tentativo di rapina impropria con riferimento al mancato conseguimento dell’impunità da parte dell’imputato dopo l’uso della minaccia verso il commesso“.
Secondo una recente sentenza delle Sezioni unite della Corte suprema, “nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante del danno di speciale tenuità è applicabile anche al delitto tentato; ciò, tuttavia, a condizione che sia possibile desumere con certezza, dalle modalità del fatto e in base ad un preciso giudizio ipotetico che, se il reato fosse stato riportato al compimento, il danno patrimoniale per la persona offesa sarebbe stato di rilevanza minima (Cass., sez. un., n. 28243 del 28/03/2013 Rv. 255528)“.
Pertanto, continuano i giudici, “non appare censurabile, perciò, la sentenza impugnata nella parte in cui non ha riconosciuto all’imputato l’attenuante in parola, considerato che, dalla ricostruzione del fatto compiuta dai giudici di merito, non risulta alcun elemento per stabilire il valore dei pantaloni e delle scarpe oggetto dell’azione criminosa (beni che, talora, possono essere anche di cospicuo valore); e considerato altresì che, nei casi in cui la condotta sia posta in essere con violenza o minaccia (in considerazione del duplice oggetto della condotta dell’agente, che investe non soltanto il patrimonio, ma anche la persona della vittima), ai fini della valutazione della configurabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen., il “danno patrimoniale” comprende anche il danno fisico o morale prodotto alla persona offesa (Cass., Sez. 2, n. 13575 del 20/12/2013 – dep. 24/03/2014 – Rv. 259701)“.
La Corte, richiamando ancora le Sezioni Unite hanno precisato che “deve qualificarsi come furto tentato, e non consumato, la condotta di sottrazione di merce dai banchi di vendita di un supermercato, avvenuta sotto il costante controllo del personale di vigilanza, anche nel caso in cui l’autore sia fermato dopo il superamento delle casse senza aver pagato la merce prelevata“.
In conclusione, “ricorre fa rapina impropria nella forma del tentativo allorquando l’agente, dopo avere compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a sottrarre la cosa mobile altrui a chi la detiene ma non riuscendo in tale intento per la costante vigilanza della persona offesa o di un suo delegato, adoperi, immediatamente dopo, violenza o minaccia per procurare a sé o ad altri l’impunità; ricorre invece la rapina impropria consumata quando l’agente, dopo l’amotio della res, riesce a portare a termine anche l’ablatio – ossia lo spossessamento dell’avente diritto, che fa perdere a costui il controllo sulla cosa, dimodoché non è più in grado di recuperarla autonomamente, senza l’ausilio di terzi o delle forze dell’ordine – e adoperi, immediatamente dopo, violenza o minaccia per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta o per procurare a sé o ad altri l’impunità“.
Leggi il testo della sentenza
Articolo 628 Codice Penale
Rapina
Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona [581 2] o minaccia, s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, è punito con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa da cinquecentosedici euro a duemilasessantacinque euro.
Alla stessa pena soggiace chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l’impunità.
La pena è della reclusione da quattro anni e sei mesi a venti anni e della multa da milletrentadue euro a tremilanovantotto euro:
1) se la violenza o minaccia è commessa con armi [585 2], o da persona travisata, o da più persone riunite [112 n. 1];
2) se la violenza consiste nel porre taluno in stato d’incapacità di volere o di agire [605, 613; c. nav. 1137];
3) se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte dell’associazione di cui all’articolo 416bis;
3-bis) se il fatto è commesso nei luoghi di cui all’articolo 624-bis o in luoghi tali da ostacolare la pubblica o privata difesa;
3-ter) se il fatto è commesso all’interno di mezzi di pubblico trasporto;
3-quater) se il fatto è commesso nei confronti di persona che si trovi nell’atto di fruire ovvero che abbia appena fruito dei servizi di istituti di credito, uffici postali o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro;
3-quinquies) se il fatto è commesso nei confronti di persona ultrasessantacinquenne.
Le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall’articolo 98, concorrenti con le aggravanti di cui al terzo comma, numeri 3), 3-bis), 3-ter) e 3-quater), non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti.
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