Tifoso condannato per lancio di seggiolino in campo
Tifoso condannato per lancio di seggiolino in campo
Corte di Cassazione, sezione III Penale
sentenza 13 ottobre – 12 novembre 2015, n. 45261
Presidente Franco – Relatore Mengoni
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 28/3/2014, la Corte di appello di Bologna confermava la pronuncia emessa il 20/6/2007 dal locale Tribunale, con la quale C.P. era stato riconosciuto colpevole del delitto di cui agli artt. 110, 61, n. 1 cod. pen., 6-bis, l. 13 dicembre 1989, n. 401, ed assolto dall’imputazione di concorso in danneggiamento aggravato; allo stesso – presente allo stadio Dall’Ara di Bologna in occasione dell’incontro di calcio tra la squadra di casa ed il Piacenza – era ascritto di aver lanciato verso il campo di gioco un pezzo di seggiolino divelto, di plastica tagliente, in modo tale da creare pericolo per le persone poste negli spalti sottostanti ed ai margini dell’area di gioco.
2. Propone ricorso per cassazione il P., a mezzo del proprio difensore, deducendo quattro motivi:
– violazione dell’art. 6-bis contestato, difetto motivazionale della sentenza quanto alla pericolosità della condotta. La Corte di appello avrebbe confermato la condanna pur in presenza di un comportamento – non contestato – del tutto insuscettibile di arrecare pregiudizio ad altri; ed invero, il pezzo di plastica – che il P. avrebbe lanciato in modo istintivo e solo per non averlo (letteralmente) tra i piedi, dopo che era stato staccato dal coimputato T. – sarebbe caduto in una parte dello stadio lontana decine di metri da operatori televisivi, sanitari o steward, e tale da non porre in pericolo neppure gli altri tifosi presenti sugli spalti. Il pezzo in oggetto, inoltre, avrebbe avuto il peso di soli 106 grammi e sarebbe stato privo di spigoli vivi o parti contundenti;
– mancanza e manifesta illogicità quanto alla valutazione dell’elemento soggettivo del reato. La sentenza avrebbe ricostruito il lancio secondo la deposizione del Maresciallo C., il quale, però, dalla posizione e distanza cui si trovava, mai avrebbe potuto avere esatta percezione dell’accaduto; la condotta, inoltre, sarebbe stata meramente istintiva e non volta a danneggiare alcuno, come confermato dal fatto che il P. non si sarebbe allontanato dal posto e si sarebbe subito assunto la responsabilità dei lancio;
– erronea applicazione dell’art. 61, n. 1 cod. pen.. La Corte avrebbe riconosciuto questa circostanza aggravante pur in assenza dei presupposti, specie considerando che il ricorrente è persona incensurata, padre di famiglia ed onesto lavoratore;
– erronea determinazione della pena per mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche come prevalenti sulla contestata aggravante. La sentenza avrebbe omesso ogni motivazione al riguardo, così irrogando un trattamento sanzionatorio sproporzionato.
Considerato in diritto
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
Con riguardo alle prime due doglianze, da esaminare congiuntamente attesane la sostanziale identità di ratio, osserva innanzitutto il Collegio che il controllo del Giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logicoargomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo di questa Corte in forza del quale l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606, comma 1, lett e), cod. proc. pen., è soltanto quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi; ciò in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà dei legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074).
In altri termini, il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene alla ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del Giudice di merito, ma è limitato alla verifica della rispondenza dell’atto impugnato a due requisiti, che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo dei provvedimento. (Sez. 2, n. 21644 dei 13/2/2013, Badagliacca e altri, Rv. 255542; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv, 251760).
Se questa, dunque, è l’ottica ermeneutica nella quale deve svolgersi il giudizio della Suprema Corte, le censure che il ricorrente muove al provvedimento impugnato si evidenziano come manifestamente infondate; ed invero, dietro l’apparenza di un difetto motivazionale, lo stesso invoca al Collegio – peraltro in modo del tutto esplicito – una nuova e diversa valutazione delle medesime risultanze istruttorie già esaminate dai Giudici di merito (deposizioni, rilevazioni tecnico-planimetriche), ampiamente riportate nel ricorso, sollecitandone una lettura alternativa e più favorevole.
Il che, come appena indicato, non è consentito.
Il ricorso, inoltre, oblitera del tutto la motivazione stesa dalla Corte di merito, la quale, rispondendo alle medesime doglianze, ha confermato la pronuncia di primo grado con solido apparato argomentativo, congrua valutazione delle emergenze probatorie ed assenza di ogni contraddizione. In particolare, e data per pacifica la condotta contestata, la sentenza ha evidenziato che il gesto del P. non poteva esser considerato istintivo e volto soltanto ad allontanare da sé il pezzo di plastica, ma palesemente indirizzato a gettare questo verso il campo, in evidente protesta contro la decisione arbitrale di espellere un calciatore del Bologna, squadra per la quale tifa il ricorrente. Quel che la Corte di appello ha tratto dall’esame tecnico della parabola imposta all’oggetto, per una lunghezza di 15.50 metri, tale da consentire il superamento della barriera metallica e della vetrata antisfondamento alta 2,90 metri. E con la precisazione ulteriore – non suscettibile di censura in questa sede, perché adeguatamente motivata – che il pezzo in oggetto si presentava rigido (lo stesso era parte di un seggiolino in plastica, divelto dal coimputato T.) e con bordi frastagliati, tali da poter concretamente attingere le persone poste nelle immediate adiacenze, quali operatori televisivi e steward, presenti a 5-10 metri dal punto di caduta. E senza che, peraltro, possa esser apprezzata la considerazione difensiva secondo cui questi, in realtà, si sarebbero trovati a distanza di sicurezza, atteso che – come correttamente affermato dalla Corte di merito – il P. non poteva controllare l’oggetto, una volta lanciato, né individuare con assoluta precisione il punto in cui sarebbe caduto.
Sì da creare un concreto pericolo per le persone, come richiesto dall’art. 6bis, I. n. 401 del 1989 qui contestato.
4. Manifestamente infondata, poi, è la doglianza relativa alla circostanza di cui all’art. 61, n. 1 cod. pen.. Premesso che la condotta è stata originata da una decisione arbitrale non condivisa, si osserva che – per costante e condivisa giurisprudenza – la circostanza aggravante dei futili motivi sussiste ove la determinazione criminosa sia stata indotta da uno stimolo esterno di tale levità, banalità e sproporzione, rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l’azione criminosa e da potersi considerare, più che una causa determinante dell’evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso violento (per tutte, Sez. 5, n. 41052 del 19/6/2014, Barnaba, Rv. 260360); esattamente come ritenuto dalla Corte di appello, con motivazione ancora adeguata ed insuscettibile di censura.
5. Da ultima, la doglianza in punto di pena e di circostanze attenuanti generiche, parimenti dei tutto infondata. Ed invero, il Collegio – investito della questione – ha affermato che «la pena è congrua e non suscettibile di attenuazione in assenza di elementi favorevoli (al di là della irrilevante pregressa incensuratezza) che giustifichino la prevalenza delle attenuanti generiche»; motivazione sintetica ma adeguata, atteso che la pena irrogata è stata quantificata nel minimo edittale (1 anno di reclusione, ridotto per il rito abbreviato), sì da non imporre un ulteriore onere motivazionale. Al riguardo, infatti, si ribadisce che la specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, specie in relazione alle diminuzioni o aumenti per circostanze, è necessaria soltanto se la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, potendo altrimenti essere sufficienti a dare conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. le espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure il richiamo alla gravità dei reato o alla capacità a delinquere (per tutte, Sez. 3, n. 27427 del 16/5/2014, De Gennaro, Rv. 259395; Sez. 2, n. 36245 del 26/6/2009, Denaro, Rv. 245596).
II ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello dei versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
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