Morte del congiunto e prova del rapporto parentale
Morte del congiunto e prova del rapporto parentale
Corte di Cassazione IV Sezione Penale
Sentenza 18 febbraio – 11 aprile 2016, n. 14768
Presidente Bianchi – Relatore Bellini
Ritenuto in fatto
1. La Corte di Appello di Venezia con sentenza in data 8 Maggio 2015 in parziale riforma della sentenza del Gip del Tribunale di Bassano del Grappa, il quale aveva riconosciuto la responsabilità di Sp.Le. per il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione sulla disciplina della circolazione stradale commesso in (OMISSIS) ai danni di B.B. e lo condannava alla pena di mesi quattro di reclusione oltre al pagamento delle spese processuali, respingendo al contempo la domanda proposta dalle parti civili costituite, riconosceva il giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla contestata circostanza aggravante, e conseguentemente dichiarava il reato estinto per intervenuta prescrizione. Ai fini civili confermava la sentenza impugnata;
2. Con particolare riferimento alla impugnazione della parte civile costituita la Corte di appello di Venezia, operando la distinzione tra legittimazione attiva delle parti costituite che asserivano di avere subito un danno per effetto della morte del loro congiunto in conseguenza del sinistro stradale, legittimazione che andava valutata sulla base della prospettazione fatta nella dichiarazione di costituzione, rispetto alla titolarità attiva del rapporto controverso, che atteneva al merito della domanda e che doveva formare quindi oggetto di specifica allegazione e dimostrazione, assumeva che le parti civili non avevano fornito adeguata evidenza della loro qualità di congiunti e aventi diritto a seguito della morte della persona offesa. A tale proposito rilevava che la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà allegata da A.A.P. nel presente giudizio non possedeva nessun valore probatorio, neppure indiziario, laddove era lo stesso A. a rivendicare la qualità di prossimo congiunto della persona offesa, ma senza nulla dimostrare in relazione alla qualità a sé attribuita e ugualmente di nessun pregio anagrafico potevano essere le dichiarazioni rese dagli altri soggetti costituiti parte civile nel conferire procura speciale al loro difensore dinanzi a notaio del Ghana, il quale non poteva che limitarsi ad attestare quanto dichiarato in sua presenza dai comparenti;
3. Avverso la suddetta pronuncia proponevano ricorso per cassazione le parti civili, con distinti atti di impugnazione, A.A.P. residente in Italia che conferiva procura speciale al proprio difensore costituito in calce al ricorso e l’avv.to Domenico Dissegna quale procuratore speciale di B.A. , A.Y.A. , Ak.Ma. , Ak.Ye.Ad. e S.V. sulla base di procura da questi rilasciata al proprio difensore con sottoscrizione autenticata da notaio in territorio dello Stato del Ghana, procura legalizzata da capo cancelliere del Servizio Giudiziaria, dell’autorità consolare del Ministero degli Esteri del Ghana e legalizzazione dell’Ambasciata italiana. I ricorrenti deducevano violazione di legge e vizio motivazionale per contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui confermava la sentenza del primo giudice che da una parte aveva ammesso la costituzione di parte civile, riconoscendo loro la legittimazione ad essere ristorati in ragione del pregiudizio ad essi derivato dal fatto reato ascritto all’imputato e dall’altra aveva escluso la ricorrenza di un danno risarcibile non avendo le parti civili fornito la prova della relazione parentale e di successione con la persona offesa del reato, in quanto una volta riconosciuta la suddetta legittimazione, tutte le questioni inerenti la sussistenza del vincolo parentale dovevano ritenersi superate e ormai non più opinabili; deduceva inoltre che il vizio motivazione era tanto più evidente se si considerava che la ordinanza con cui veniva disposta l’ammissione della parte civile nel processo penale non era modificabile né impugnabile di talché la successiva contestazione della avvenuta costituzione non era ammissibile negli ulteriori gradi del giudizio; evidenziava inoltre l’erroneità della sentenza impugnata anche nella parte in cui aveva ritenuto la inidoneità, a fini che qui rilevano, della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà della parte civile A.A.P. regolarmente residente in Italia, nonché la insufficienza delle dichiarazioni rese dagli altri istanti rivolte a un pubblico ufficiale in territorio ad essi nazionale con le legalizzazioni previste dalla legge, a rappresentare la loro qualità di prossimi congiunti ed eredi della persona offesa del reato, deceduta in seguito al sinistro. Evidenziava sotto diverso profilo che il ricorrente A.A.P. , titolare di patente di guida in territorio italiano, era stato chiamato a effettuare il riconoscimento della salma del congiunto da parte della autorità di P.S. di Vicenza e in tale veste lo stesso era stato indicato a verbale quale parente del defunto. Chiedevano pertanto l’annullamento ai fini civili della sentenza della Corte territoriale con rimessione al giudice competente a decidere sull’azione civile dagli stessi inserita nel procedimento penale.
4. In data 1.2.2016 depositava memoria difensiva la difesa del responsabile civile Società Cattolica di Assicurazioni coop. A r.l. con la quale chiedeva venisse dichiarata la inammissibilità, ovvero disposto il rigetto del ricorso.
Considerato in diritto
1. I ricorsi delle parti civili sono infondati. Entrambe le parti ricorrenti confondono i principi, tutti di derivazione civilistica, della legittimazione ad causam che attiene alla relazione di identità tra chi chiede la tutela giudiziaria e colui che, sulla base della stessa prospettazione attorea, sarebbe il soggetto legittimato a riceverla in relazione alla situazione sostanziale dedotta in giudizio, con quello della titolarità attiva del rapporto dedotto in giudizio che si misura con il metro sostanziale del giudizio di merito nella dialettica processuale fornita dal contraddittorio, sulla base delle eccezioni proposte dalle altre parti e dell’adempimento, da parte di colui sul quale incombe, dell’onere della prova sui fatti costitutivi, impeditivi e modificativi delle rispettive pretese.
In particolare con riferimento alla domanda risarcitoria promossa dai prossimi congiunti della persona offesa, rimasta vittima della condotta colposa del terzo, il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale non coincide con l’interesse leso, ma deve essere provato da chi ne chiede il risarcimento; peraltro trattandosi di pregiudizio che si proietta nel futuro è consentito il ricorso a valutazioni prognostiche e a presunzioni sulla base degli elementi obiettivi che è onere de danneggiato fornire. Tra detti elementi la giurisprudenza del Supremo collegio ha indicato che la liquidazione possa intervenire sulla base di una valutazione equitativa che tenga conto della intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza e di ogni ulteriore utile circostanza quale la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini della vittima, la età della vittima e dei singoli superstiti (Cfr. sez. III civile, 19.8.2003 n. 12124). In sostanza non c’è chi non veda che non è sufficiente dichiararsi titolare di una posizione giuridica soggettiva che corrisponde a quella di colui che avrebbe diritto ad ottenere una riparazione risarcitoria in ragione del vincolo familiare o affettivo con la vittima di un fatto illecito da parte del soggetto responsabile ma occorre altresì fornire la prova di tutti gli elementi costitutivi della pretesa creditoria e cioè il damnum iniuria datum corrispondente alla concreta situazione di pregiudizio che si riverbera sulla propria persona ovvero sul proprio patrimonio in ragione del fatto illecito riconducibile alla condotta del terzo. In relazione al profilo di pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale dedotto nel presente giudizio la sussistenza della relazione parentale con l’offeso e la sua intensità costituiscono questioni di merito che condizionano la risarcibilità, in quanto rappresentano l’origine del pregiudizio e la sua riferibilità al soggetto che se ne assume portatore in quanto leso dalla condotta illecita.
2. La distinzione appena illustrata, del tutto pacifica nella giurisprudenza civile della S.C., è peraltro richiamata dalla stessa giurisprudenza del S.C. in relazione all’azione civile esercitata nell’ambito del processo penale, tenendo conto della peculiarietà del suddetto giudizio atteso che la ammissione nel processo penale è sottoposta ad un preliminare vaglio di ammissibilità ad opera del giudice e che, superato lo stesso, lo svolgersi del dibattimento penale non è regolato dal sistema composito di preclusioni e decadenze di cui agli art. 183 e ss. cod.proc.civ.. A tale proposito ha infatti affermato il S.C. che la legittimazione all’azione civile nel processo penale va verificata esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dalla parte a fondamento dell’azione, in relazione al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e indipendentemente dalla effettiva titolarità del vantato diritto al risarcimento del danno, il cui accertamento riguarda il merito della causa, investendo i concreti requisiti di accoglibilità della domanda e, perciò, la sua fondatezza, ed è collegato all’adempimento dell’onere deduttivo e probatorio incombente sull’attore (sez. II, 21.10.2014 n. 49038). La Corte territoriale, del tutto coerentemente e con valutazione logico giuridica esente da vizi, ha operato la distinzione tra il giudizio di ammissibilità della domanda civile, fondato esclusivamente sulla enunciazione e sulla prospettazione delle odierne parti civili, le quali assumevano che, in ragione del loro rapporto di parentela e di successione con l’offeso, rimasto ucciso in conseguenza del sinistro stradale, erano portatori di una situazione soggettiva corrispondente ad una prospettiva risarcitoria verso il terzo responsabile, rispetto alla decisione di merito che, tenuto altresì conto delle contestazioni svolte dalle altre parti del processo (in particolare la posizione del responsabile civile) ha escluso che, all’esito del giudizio la parte civile, la quale era chiamata a fornire evidenza della relazione parentale – verosimilmente attraverso atti dello stato civile o comunque sulla base del titolo o del possesso del rapporto di coniugio ovvero parentale, rispetto al comune ascendente, secondo la disciplina della lex loci – avesse adempiuto all’onere che gli era proprio, finendo pertanto per rigettarne la domanda; nessuna contraddizione interna al ragionamento del giudice territoriale è pertanto ravvisabile, laddove la duplice valutazione dallo stesso operata costituisce logico e coerente sviluppo della distinzione tra il giudizio delibativo sulla legittimazione ad causam, che il giudice penale svolge all’atto dell’ammissione della costituzione di parte civile, rispetto alla valutazione sulla fondatezza della pretesa risarcitoria la quale, in presenza di richiesta del danno non patrimoniale da uccisione del congiunto, comprende la verifica della sussistenza della relazione parentale tra la parte che agisce per risarcimento e la vittima del reato, senza che la prima valutazione di ammissibilità condizioni e interferisca con la prova della relazione parentale.
3. La circostanza poi che la costituzione di parte civile è immanente nel processo penale e che il provvedimento di ammissione non è suscettibile di impugnazione, come sostenuto dalla parte ricorrente, lungi dal dimostrare che l’ammissione dell’azione civile nel processo penale costituisca garanzia di accoglimento della relativa domanda nel merito, contribuisce a dimostrare il diverso piano prospettico che presiede la fase preliminare del giudizio delibativo sull’ammissione e quello finale sull’oggetto della pretesa civile azionata nel processo penale.
4. del tutto coerente e resistente al secondo motivo di impugnazione è poi la motivazione della corte territoriale anche in punto a inidoneità nel processo di danno della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, in presenza di mere autocertificazioni sottoscritte dai dichiaranti in calce alle quali, tanto l’autentica del funzionario del comune di Rosà, quanto la certificazione legalizzata con apostille del pubblico ufficiale dinanzi al quale sono state rese in territorio della repubblica del Ghana, nulla sono in grado di provare sul rapporto di parentela (coniugio, filiazione, discendenza, parentela collaterale) con l’offeso in assenza di estratti autentici o certificazioni autenticate dello stato civile, opportunamente legalizzate, da cui desumere la circostanze di fatto, afferenti lo stato civile, che stanno alla base della pretesa attrice. Invero è stato affermato dalla suprema corte che mentre la legittimazione attiva deve essere accertata non in relazione alla sua sussistenza effettiva ma alla sua affermazione con l’atto introduttivo del giudizio, l’accertamento della effettiva titolarità del rapporto controverso attiene al merito della causa, investendo i concreti requisiti di accoglibilità della domanda e quindi la sua fondatezza, in ipotesi in cui il ricorrente non aveva dimostrato la sua qualità di erede della parte, deceduta nelle more, in quanto la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà da esso resa non ha valore probatorio nel processo civile (Cass. Civ. sez. II, 6.3.2008 n. 6132) a tale riguardo la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui agli art. 46 e 47 del d.p.r. 28.12.2000 n. 445 non costituisce di per sé prova idonea di tale qualità, esaurendo i suoi effetti nell’ambito dei rapporti con la P.A. e nei relativi procedimenti amministrativi, dovendo tuttavia il giudice, ove la stessa sia prodotta, adeguatamente valutare, anche ai sensi della nuova formulazione dell’art. 115 c.p.c. in conformità al principio di non contestazione, il comportamento in concreto assunto dalla parte nei cui confronti la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà viene fatta valere, con riferimento alla verifica della contestazione o meno della predetta qualità di erede e, nella ipotesi affermativa, al grado di specificità di tale contestazione (sez.U, 29.5.2014 n.12065). Appare evidente l’assoluta genericità e carenza di valenza probatoria della documentazione allegata dalla parte civile a sostegno del controverso tema della ricorrenza del rapporto di parentela e di successione rispetto al de cuius, laddove non solo tutta la documentazione prodotta non contiene alcun riferimento ad atti dello stato civile, ma le stesse dichiarazioni rese dagli asseriti congiunti del de cuius in territorio straniero non integrano, per il nostro ordinamento, neppure una dichiarazione sostitutiva di un atto di notorietà, ma concorrono a formare una procura speciale a favore dell’avv.to Dissegna Domenico per il compimento di attività processuale nel loro interesse, limitandosi a richiamare in maniera del tutto incidentale, ma strumentale al rilascio della suddetta procura, il processo penale nell’ambito del quale la procura era conferita, la propria identità personale e fra parentesi il loro grado di parentela con il de cuius. Il notaio attestava che i dichiaranti erano comparsi dinanzi a lui e avevano impresso le loro impronte digitali sotto la procura dopo che il testo, vergato in lingua inglese, era stata loro tradotto in lingua (Twi Language) ad esse nota da uno dei conferenti la procura (A.Y.A. ) dopo che gli altri mostravano di averne compreso il significato.
Risulta evidente l’assoluta inidoneità di una tale attestazione, sia per sé stessa considerata, sia in quanto intervenuta attraverso la mediazione linguistica di un terzo, che è egli stesso parte del processo, in assenza di alcun riferimento ad una disciplina di diritto internazionale privato della Repubblica del Ghana, che riconosca legittimità a una tale procedura e comunque fondando la pretesa risarcitoria su mere manifestazioni di volontà quali autocertificazioni, peraltro sprovviste di elementi di univocità anagrafica idonee a collegarle alle persone da cui provengono (ad eccezione della dichiarazione dello A.A.P. ), prive comunque di alcun rilievo probatorio nel presente giudizio atto a evidenziare la relazione parentale o di coniugio.
Anche il secondo motivo deve essere rigettato e i ricorrenti vanno condannati al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
L’articolo Morte del congiunto e prova del rapporto parentale sembra essere il primo su sentenze cassazione.