Licenziamento del lavoratore distaccato dall’azienda
Licenziamento del lavoratore distaccato dall’azienda
Corte di Cassazione, sezione Lavoro
Sentenza 26 febbraio – 21 maggio 2015, n. 10468
Presidente Lamorgese – Relatore Bandini
Nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, i giudici di Piazza Cavour hanno affermato che il lavoratore che si rifiuta di prestare la propria attività lavorativa non è giustificato ai sensi dell’art. 1460 c.c. nel caso in cui l’inadempimento di quanto posto alla base del rapporto sinallagmatico tra il datore di lavoro e il dipendente non sia grave o di scarsa importanza.
Più nello specifico, il caso in commento riguardava un socio lavoratore che aveva impugnato le plurime sanzioni disciplinari conservative che gli sono state applicate e il licenziamento disciplinare. Il giudice di primo grado accoglieva la domanda del lavoratore
ma questa veniva parzialmente riformata in appello.
Si legge in sentenza: “nel caso all’esame la sentenza impugnata ha esaminato le circostanze rilevanti ai fini della decisione, svolgendo un iter argomentativo esaustivo, coerente con le emergenze istruttorie acquisite e immune da contraddizioni e vizi logici; le valutazioni svolte e le coerenti conclusioni che ne sono state tratte configurano quindi un’opzione interpretativa del materiale probatorio del tutto ragionevole, espressione di una potestà propria dei giudice del merito che non può essere sindacata nel suo esercizio”.
“La ratio decidendi delle statuizioni rese al riguardo è infatti unicamente quella della ritenuta inosservanza del termine entro cui, a giudizio della Corte territoriale, avrebbero dovuto essere assunti i provvedimenti disciplinari; ogni ulteriore considerazione al riguardo, che avrebbe al contrario dovuto condurre al riconoscimento della legittimità delle sanzioni inflitte (espulsiva e non), è dunque ultronea rispetto alla decisione assunta, non configurando una ragione ulteriore (ed eventualmente alternativa) idonea a sorreggerla. Trova quindi applicazione il principio, reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui le argomentazioni ultronee, che non hanno lo scopo di sorreggere la decisione già basata su altre decisive ragioni, sono improduttive di effetti giuridici e, come tali, non sono suscettibili di censura in sede di legittimità“.
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