Ingiuria, risarcimento del danno e giudizio civile
Ingiuria, risarcimento del danno e giudizio civile
Corte di Cassazione V sezione Penale
sentenza 1 – 19 aprile 2016, n. 16141
Presidente Sabeone – Relatore Caputo
Ritenuto in fatto
Con sentenza deliberata il 30/03/2015, il Tribunale di Taranto ha confermato la sentenza in data 24/07/2014 con la quale il Giudice di pace di Taranto aveva dichiarato R.R. colpevole dei reato di ingiuria in danno di S.C., condannandolo alla pena di giustizia e al risarcimento dei danni in favore della parte civile.
Avverso l’indicata sentenza dei Tribunale di Taranto ha proposto ricorso per cassazione R.R., attraverso il difensore avv. F. Foggia, denunciando – nei termini di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen. – vizi di motivazione e inosservanza o erronea applicazione degli artt. 51 e 599 cod. pen., nonché invocando il proscioglimento a norma dell’art. 131 bis cod. pen.
Considerato in diritto
1. La Corte rileva d’ufficio che, in forza dell’art. 1, comma 1, lett c), d.lgs. n. 15 gennaio 2016, n. 7, l’art. 594 cod. pen. è stato abrogato: di conseguenza, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
2. Resta precluso, per le ragioni di seguito indicate, l’esame di questa Corte agli effetti civili in relazione al predette reato, per il quale era intervenuta condanna al risarcimento del danno.
2.1. La recente sentenza n. 12 del 2016 della Corte costituzionale ha delineato la fisionomia generale della disciplina dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale, disciplina informata al «principio della separazione e dell’autonomia dei giudizi»: «il danneggiato può scegliere se esperire l’azione civile in sede penale o attivare la tutela giurisdizionale nella sede naturale. In questa seconda ipotesi, peraltro, egli non subisce alcuna limitazione di ordine temporale: diversamente che sotto l’impero del codice dei 1930, l’esercizio dell’azione penale per lo stesso fatto non comporta, di regola, la sospensione del processo civile, nell’ambito del quale l’eventuale giudicato penale di assoluzione non ha efficacia (art. 652 cod. proc. pen.). Il giudizio civile di danno prosegue, dunque, autonomamente malgrado la contemporanea pendenza del processo penale (art. 75, comma 2, cod. proc. pen.): la sospensione rappresenta l’eccezione, che opera nei limitati casi previsti dall’art. 75, comma 3». In questa prospettiva, osserva ancora la sentenza n. 12 del 2016, l’art. 538, comma 1, cod. proc. pen. collega «in via esclusiva la decisione sulla domanda della parte civile alla condanna dell’imputato», con l’unica eccezione – «fortemente circoscritta» – stabilita dall’art. 578 cod. proc. pen. riguardante il giudizio di impugnazione. Il collegamento istituito dall’art. 538 cod. proc. pen. «tra decisione sulle questioni civili e condanna dell’imputato riflette il carattere accessorio e subordinato dell’azione civile proposta nel processo penale rispetto agli obiettivi propri dell’azione penale: obiettivi che si focalizzano nell’accertamento della responsabilità penale dell’imputato».
Il carattere fortemente circoscritto dell’eccezione, posta dall’art. 578 cod. proc. pen., alla “regola” generale del collegamento in via esclusiva tra decisione sulle questioni civili e condanna dell’imputato trova conferma nel costante riferimento della giurisprudenza di questa Corte alla tassatività della previsione (Sez. 6, n. 12537 del 05/10/1999 – dep. 04/11/1999, Nicolosi, Rv. 216394, che ha escluso l’applicabilità dell’art. 578 cod. proc. pen al caso di estinzione del reato per morte dell’imputato; conf.: Sez. 3, n. 22038 del 12/02/2003 – dep. 20/05/2003, Pludwinski, Rv. 225321) e al carattere speciale della disciplina, non suscettibile di essere estesa analogicamente ad altre cause estintive (Sez. 4, n. 31314 del 23/06/2005 – dep. 19/08/2005, Zelli, Rv. 231745).
Né la “regola” generale del collegamento in via esclusiva tra decisione sulle questioni civili e condanna dell’imputato è smentita dai poteri attribuiti al giudice dall’art. 576 cod. proc. pen. di decidere sulla domanda al risarcimento e alle restituzioni anche su impugnazione della parte civile avverso una sentenza di assoluzione: come chiarito da Sez. U, n. 25083 del 11/07/2006 – dep. 19/07/2006, Negri, «l’art. 576 e l’art. 578 disciplinano situazioni processuali diversificate, mirando l’art. 578, nonostante la declaratoria della prescrizione, a mantenere, in assenza di un’impugnazione della parte civile, la cognizione del giudice dell’impugnazione sulle disposizioni e sui capo della sentenza del precedente grado che concernono gli interessi civili, mentre l’art. 576 conferisce al giudice dell’impugnazione il potere di decidere sulla domanda al risarcimento ed alle restituzioni, pur in mancanza di una precedente statuizione sul punto»; l’art. 578 cod. proc. pen., osservano le Sezioni unite, «non rappresenta l’unica eccezione fatta dal legislatore al principio che il giudice penale in tanto può occuparsi dei capi civili in quanto contestualmente pervenga a una dichiarazione di responsabilità penale», in quanto l’art. 576 cod. proc. pen. sottolinea «come, per effetto dell’impugnazione della sola parte civile, si possa rinnovare l’accertamento dei fatti posto a base della decisione assolutoria, al fine di valutare la sussistenza di una responsabilità per illecito e così ottenere una diversa pronunzia che rimuova quella pregiudizievole per i suoi interessi civili». Infatti, «a fronte di una sentenza assolutoria irrevocabile pronunciata a seguito di dibattimento, il confine della cognizione del giudice civile è segnato soltanto in alcuni casi da effetti extrapenali del giudicato assolutorio, e specificamente quando il giudice penale abbia accertato che il fatto non sussista, o che l’imputato non lo abbia commesso o che il fatto sia stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima» (Sez. 1, n. 11994 del 30/01/2013 – dep. 14/03/2013, P.C. in proc. Di Pauli, Rv. 255447): in presenza, per un verso, di un’assoluzione con una delle predette formule (richiamate dall’art. 652 cod. proc. pen.) e, per altro verso, di una sopravvenuta abolitio criminis, l’impugnazione della parte civile a norma dell’art. 576 cod. proc. pen. è il mezzo necessario per contrastare, agli effetti civili, la formazione del giudicato assolutorio e i pregiudizievoli effetti extrapenali che ne conseguirebbero.
Fuori dalle ipotesi eccezionali indicate, resta fermo il principio generale in forza del quale il giudice penale in tanto può occuparsi dei capi civili in quanto contestualmente pervenga a una dichiarazione di responsabilità penale, ossia il collegamento in via esclusiva tra decisione sulle questioni civili e condanna dell’imputato: di conseguenza, fuori dai casi in cui la disciplina introduttiva dell’abolitio criminis preveda che il giudice dell’impugnazione decide sulla stessa ai soli effetti civili, nel giudizio sull’impugnazione dell’imputato avverso una sentenza di condanna agli effetti penali e agli effetti civili, il proscioglimento con la formula «perché il fatto non è previsto dalla legge come reato» (nei caso di specie, a seguito dell’abrogazione della norma incriminatrice disposta dall’art. 1, d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7) preclude l’esame, ai fini dell’eventuale conferma, delle statuizioni civili.
2.2. Non sono in contrasto con questa conclusione Sez. 5, n. 4266 dei 20/12/2005 – dep. 02/02/2006, Colacito, Rv. 233598 e Sez. 5, n. 28701 dei 24/05/2005 – dep. 29/07/2005, P.G. in proc. Romiti, Rv. 231866: dette pronunce, infatti, riguardano la revoca della sentenza di condanna per sopravvenuta abolitio criminis, revoca la cui portata viene circoscritta agli effetti penali e con esclusione di quelli civili; diverso è il caso in esame, in cui una sentenza (irrevocabile) di condanna non è intervenuta, sicché non può essere superato il collegamento «in via esclusiva» sancito dall’art. 538, comma 1, cod. proc. pen. tra la decisione sulla domanda della parte civile e la condanna dell’imputato. Neppure contrasta la conclusione qui raggiunta Sez. 6, n. 31957 del 25/01/2013 – dep. 23/07/2013, Cordaro e altri, Rv. 255598; al di là delle problematiche – di rilievo nel caso esaminato dalla Sesta Sezione, ma irrilevanti ai fini della questione in esame – connesse alla sussistenza del danno civile rispetto alla nuova fattispecie ex art. 319 quater cod. pen., la pronuncia ha riqualificato il fatto imputato ad uno dei ricorrenti ai sensi della norma appena richiamata e, dichiarata l’estinzione del reato per prescrizione, ha mantenuto ferme le statuizioni civili: si rientra, all’evidenza, nell’ambito applicativo dell’art. 578 cod. proc. pen., ossia dì una delle eccezioni codicistiche al principio generale al quale è ispirata la disciplina dell’azione civile nel processo penale. Deve inoltre osservarsi che, Sez. 6, n. 2521 del 21/01/1992 – dep. 11/03/1992, Dalla Bona, Rv. 190006 è stata deliberata sulla base del previgente codice di rito e, comunque, su ricorso della parte civile.
2.3. Conferma la soluzione qui raggiunta la diversa disciplina stabilita dall’art. 9, d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8: per gli illeciti oggetto della depenalizzazione introdotta da detto decreto, la seconda parte del comma 3 dell’art. 9 cit. stabilisce che «quando è stata pronunciata sentenza di condanna, il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, decide sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili», norma, questa, estranea al d.lgs. n. 7 del 2016, che trova applicazione nel caso di specie. Né può prospettarsi un’applicazione analogica del richiamato art. 9, comma 3, ai casi di abrogazione di cui al d.lgs. n. 7 del 2016, ostandovi, in radice, l’eccezionalità che va riconosciuta alla norma in linea con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità a proposito dell’art. 578 cod. proc. pen.
Del resto, non si rinviene, nel raffronto tra le discipline dei due decreti legislativi, il presupposto dell’eadem ratio. Nel caso di depenalizzazione a norma dei d.lgs. n. 8, la sanzione prevista è irrogata dall’autorità amministrativa competente (alla quale l’autorità giudiziaria deve trasmettere gli atti ex art. 9, comma 1), sicché, definendosi nella sede amministrativa l’applicabilità delle sanzioni amministrative alle violazioni anteriormente commesse (art. 8), il legislatore ha attribuito al giudice dell’impugnazione penale il compito di provvedere sulle statuizioni civili. Nel caso, invece, di abrogazione a norma del d.lgs. n. 7, la sanzione pecuniaria civile è irrogata dal giudice competente a conoscere dell’azione di risarcimento del danno: di conseguenza, una previsione analoga a quella dell’art. 9, comma 3, d.lgs. n. 8 del 2016 (e a quella di cui all’art. 578 cod. proc. pen.), impedendo che il giudice civile sia investito dell’azione di risarcimento del danno con riferimento agli illeciti per i quali sia già intervenuta almeno la sentenza di condanna penale in primo grado, risulterebbe del tutto incoerente con la previsione in forza della quale le disposizioni relative alle sanzioni pecuniarie civili di cui al d.lgs. n. 7 del 2006 si applicano anche ai fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore dello stesso decreto, salvo che il procedimento penale sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili (art. 12, comma 1): per i casi in cui siano intervenuti sentenza o decreto non irrevocabili, l’applicabilità di una disciplina analoga a quella dell’art. 9, comma 3, d.lgs. n. 8 del 2016 e, dunque, la definizione, dinanzi al giudice dell’impugnazione penale, del giudizio quanto alle statuizioni civili impedirebbero l’esercizio dell’azione davanti al giudice competente sul risarcimento del danno e, con esso, escluderebbero, per gli illeciti oggetto di pronunce non irrevocabili, l’irrogazione della sanzione pecuniaria civile, esito, questo, in contrasto con la disciplina di cui all’art. 12, comma 1, d.lgs. n. 7 del 2016.
3. Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
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