Esercizio abusivo della professione, visite in carcere da finto avvocato
Esercizio abusivo della professione, visite in carcere da finto avvocato
Corte di Cassazione, sezione VI Penale,
Sentenza 29 gennaio – 13 febbraio 2015, n. 6467
Presidente Citterio – Relatore De Amicis
La Cassazione, con la sentenza in commento, ha esaminato un caso relativo al delitto di cui all’articolo 348 c.p. in cui l’imputato, a seguito del giudizio abbreviato, veniva condannato (nei due gradi di giudizio) alla pena di mesi tre di reclusione e €. 200,00 di multa.
Avverso la su indicata pronuncia l’imputato ha proposto ricorso per cassazione deducendo l’erronea applicazione della norma incriminatrice laddove la stessa prevede l’irrogazione della multa solo in alternativa alla pena detentiva della reclusione – che è stata invece applicata nella fattispecie in esame – nonché l’assenza di prova circa l’esercizio in modo continuativo, sistematico ed organizzato dell’attività professionale di avvocato, non essendo emerso, fra l’altro, che egli abbia ricevuto un compenso per la propria prestazione.
Più nello specifico, l’imputato evidenziava che la Corte d’appello nella propria decisione ha omesso di considerare che gli sono stati contestati solo tre colloqui in carcere, peraltro avvenuti in un arco temporale assai ristretto (circa un mese), e che il dirigente la Squadra Mobile aveva escluso il requisito della professionalità ipotizzando che svolgesse “impropriamente la professione di avvocato, senza interessi reconditi o altri fini delittuosi“.
Il ricorso è stato ritenuto fondato solo in parte e, per quanto riguarda il reato di esercizio abusivo della professione, gli ermellini osservano che i giudici territoriali “hanno valorizzato le pacifiche e non contestate risultanze delle attività d’indagine, dalle quali è emerso che l’imputato, laureato in giurisprudenza, ma non abilitato all’esercizio della professione di avvocato, aveva effettuato tre colloqui nella Casa circondariale di Teramo con un detenuto che lo aveva preventivamente nominato difensore di fiducia, qualificandosi come avvocato al cospetto del personale di Polizia penitenziaria di quell’Istituto, cui presentava un verbale di denuncia di smarrimento di una serie di documenti per giustificare il mancato possesso della tessera professionale“.
Al riguardo, è evidente che “il fatto di recarsi in più occasioni presso un Istituto penitenziario, simulando la presenza di un inesistente titolo professionale ed accedendovi al fine di colloquiare con un detenuto dal quale si è appena ricevuta la nomina, dunque per compiere un atto tipico ed esclusivo di esercizio della professione di avvocato, costituisce un comportamento idoneo a creare la pubblica percezione del concreto esercizio della professione forense o, comunque, l’apparenza di un’attività svolta da un soggetto regolarmente abilitato“
Muovendo da tali premesse storico-fattuali “deve rilevarsi come i Giudici di merito abbiano fatto buon governo del quadro di principii – in questa Sede più volte affermati – secondo cui il delitto previsto dall’art. 348 cod. pen., avendo natura istantanea, non esige un’attività continuativa od organizzata, ma si perfeziona con il compimento anche di un solo atto tipico o proprio della professione abusivamente esercitata.
Invero, quando l’esercizio dell’attività professionale vietata all’agente ne investa atti tipici, quali quelli posti in essere dall’imputato come patrocinatore legale, il reato ha natura istantanea, perfezionandosi anche con il compimento di un solo atto abusivo che realizza definitivamente il verificarsi dell’evento lesivo. Evento che deve ritenersi unico, come unitaria è la condotta che lo realizza, quand’anche sia sviluppata (come avvenuto nel caso in esame) con più atti professionali abusivi“.
La Corte osserva che “Il reato di cui all’art. 348 c.p. è un reato contro la pubblica amministrazione, il cui evento è costituito dalla elusione di una previa “speciale abilitazione”, rilasciata una tantum da appositi organi pubblici o da enti pubblici professionali, per il durevole esercizio di attività professionali riservate a soggetti muniti di specifica qualificazione“.
Infine, richiamando le Sezioni Unite i giudici ricordano che il principio di diritto secondo cui concreta esercizio abusivo di una professione, punibile a norma dell’art. 348 c.p. “non solo il compimento senza titolo, anche se posto in essere occasionalmente e gratuitamente, di atti da ritenere attribuiti in via esclusiva ad una determinata professione, ma anche il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva, siano univocamente individuati come di competenza specifica di una data professione, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e (almeno minimale) organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato“
Leggi il testo della sentenza
Articolo 348 Codice Penale
Abusivo esercizio di una professione
Chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato [2229], è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da centotre euro a cinquecentosedici euro.
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