Condannato per aver lasciato il figlio disabile in macchina
Genitore condannato per aver lasciato il figlio disabile in macchina sotto il sole
Corte di Cassazione sezione V Penale
sentenza 18 aprile – 13 luglio 2016, n. 29666
Presidente Zaza – Relatore Guardiano
Fatto e diritto
1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Milano confermava la sentenza con cui il tribunale di Milano, in data 28.4.2014, aveva condannato G.F. alla pena ritenuta di giustizia, in relazione al delitto di cui all’art. 591, co. 1 e 4, c.p., commesso in danno del figlio disabile F., abbandonato dal padre, secondo l’assunto accusatorio, condiviso dai giudici di merito, per circa quattro ore, da solo, all’interno di un’autovettura, nel pomeriggio di un giorno estivo.
2. Avverso la sentenza della corte territoriale ha proposto tempestivo ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del suo difensore di fiducia, avv. Andrea Dinelli, del Foro di Livorno, lamentando violazione di legge e vizio di motivazione, in ordine: 1) alla mancata adeguata valutazione da parte della corte territoriale del contenuto delle deposizioni dei testi S., G. e S.; 2) alla sussistenza del reato di cui si discute, di cui, ad avviso del ricorrente, difettano gli elementi costitutivi, con particolare riferimento all’insussistenza di un concreto pericolo per l’incolumità del soggetto disabile; 3) alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.
3. Il ricorso non può essere accolto per le seguenti ragioni.
4. Con il primo motivo di ricorso vengono esposte censure che si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicità tali da evidenziare la sussistenza di ragionevoli dubbi, ricostruzione e valutazione, in quanto tali, precluse in sede di giudizio di cassazione (cfr. Cass., sez. V, 22.1.2013, n. 23005, rv. 255502; Cass., sez. I, 16.11.2006, n.
42369, rv. 235507; Cass., sez. VI, 3.10.2006, n. 36546, rv. 235510; Cass., sez. III, 27.9.2006, n. 37006, rv. 235508). Ed invero non può non rilevarsi come il controllo del giudice di legittimità, anche dopo la novella dell’art. 606, c.p.p., ad opera della l. n. 46 del 2006, si dispiega, pur a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi atti del processo, e di una correlata pluralità di motivi di ricorso, in una valutazione necessariamente unitaria e globale, che attiene alla reale esistenza della motivazione ed alla resistenza logica del ragionamento del giudice di merito, essendo preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr. Cass., sez. VI, 26.4.2006, n. 22256, rv. 234148; Cass., sez. VI, 7.10.2015, n. 47204, rv. 265482).
Inoltre, in relazione al contenuto delle deposizioni dei testi innanzi indicati, non può non rilevarsi la violazione, da parte del ricorrente, del principio della cd. autosufficienza del ricorso, secondo cui anche in sede penale, allorché venga lamentata l’omessa o travisata valutazione di specifici atti processuali, è onere del ricorrente suffragare la validità del proprio assunto mediante la completa allegazione ovvero la trascrizione dell’integrale contenuto di tali atti, dovendosi ritenere precluso al giudice di legittimità il loro esame diretto, salvo che il “fumus” del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso (cfr. Cass., sez. I, 17/01/2011, n. 5833, G.), circostanza non sussistente, in tutta evidenza, nel caso in esame.
5. Infondate appaiono le censure sintetizzate sub n. 2) e n. 3). Come da tempo chiarito dalla giurisprudenza di legittimità l’elemento oggettivo del reato di abbandono di persone minori o incapaci, di cui all’art. 591, c.p., è integrato da qualsiasi condotta, attiva od omissiva, contrastante con il dovere giuridico di cura (o di custodia), gravante sul soggetto agente, da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l’incolumità del soggetto passivo (cfr., ex plurimis, Cass., sez. I, 30.4.2015, n. 35814, rv. 264566; Cass., sez. V, 25.2.2010, n. 19476, rv. 247305; Cass., sez. V, 23.2.2005, n. 15245, rv. 232158). La norma in questione, infatti, tutela il valore etico-sociale della sicurezza della persona, e pertanto ogni situazione di pericolo o abbandono, anche solo parziale, dei soggetti minori o incapaci impone la piena attivazione del titolare dell’obbligo giuridico a protezione del bene garantito (cfr. Cass., sez. I, 20.11.2001, n. 45431, rv. 220726).
Mentre, con particolare riferimento all’elemento psicologico del reato, si è opportunamente osservato come il dolo del delitto di cui all’art. 591, c.p., è generico e consiste nella coscienza di abbandonare a se stesso il soggetto passivo, che non abbia la capacità di provvedere alle proprie esigenze, in una situazione di pericolo per la sua integrità fisica di cui si abbia l’esatta percezione (cfr. Cass., sez. II, 6.12.2012, n. 10994, rv. 255173). Orbene la decisione della corte territoriale, che ha dissipato i dubbi dell’appellante sulla sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di cui si discute, si inserisce a pieno titolo nell’alveo giurisprudenziale in precedenza indicato.
Gravava, infatti, sul G., in qualità di genitore del figlio F., affidato, dunque, sia in generale che in quel particolare frangente, alla custodia ed alla cura del padre, trattandosi pacificamente (il punto non è in contestazione) di soggetto incapace di provvedere a se stesso, essendo portatore dì handicap fisici e psichici (condizione ben nota al genitore), il dovere di evitare che il figlio potesse essere esposto ad una situazione di pericolo, anche solo potenziale, per la propria incolumità psicofisica, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità.
Siffatta situazione di pericolo, come evidenziato dalla corte territoriale, attraverso una puntuale disamina del contenuto delle deposizioni dei testi che erano stati presenti sul luogo in cui si sono svolti i fatti ed hanno avuto una percezione diretta delle condizioni in cui versava il G.F. (M.; P.; G.; R.), peraltro già compiuta dal giudice di primo grado, si è indubbiamente verificata nel caso in esame. Con logico argomentare, infatti, il giudice di secondo grado ha sottolineato che la permanenza del G.F., da solo, all’interno dell’autovettura, per circa quattro ore nella calura di un pomeriggio estivo, lo ha esposto ad un rischio concreto di perdita di sensi, come si desume, per l’appunto dal contenuto delle dichiarazioni dei testi escussi, i quali hanno tutti rappresentato le critiche condizioni delle persona offesa, che appariva “stanca, affaticata, quasi accasciata nell’auto calda e non in grado di parlare” ovvero “sofferente”, non in grado di rispondere alle domande che gli venivano rivolte dai presenti, che si erano presi cura di lui, in vece del padre, assente per un lungo periodo di tempo (cfr. p. 1 della sentenza oggetto di ricorso).
Tanto premesso va osservato che la sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di cui si discute risulta in re ipsa nelle modalità della condotta dell’imputato, che le sentenze di primo e di secondo grado (da considerare un prodotto unico, essendo caratterizzate da un percorso argomentativo uniforme) hanno puntualmente evidenziato, per cui sul punto l’impugnata sentenza, complessivamente considerata, può dirsi implicitamente motivata in maniera adeguata, (sulla motivazione implicita della sentenza di appello cfr. Cass., sez. II, 12/02/2009, n. 8619), posto che, come affermato da un condivisibile arresto del Supremo Collegio, in tema di dolo, la prova della volontà di commissione del reato è prevalentemente affidata, in mancanza di confessione, alla ricerca delle concrete circostanze che abbiano connotato l’azione e delle quali deve essere verificata la oggettiva idoneità a cagionare l’evento in base ad elementi di sicuro valore sintomatico, valutati sia singolarmente sia nella loro coordinazione (cfr. Cass., sez. VI, 6.4.2011, n. 16465, rv. 250007). Immune da vizi appare la sentenza oggetto di ricorso anche con riferimento alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.
Ed invero, come chiarito dall’orientamento assolutamente dominante in sede di legittimità, condiviso dal Collegio, in tema di circostanze attenuanti generiche, posto che la ragion d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo l’affermata insussistenza.
Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita, essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda.
In questa prospettiva, anche uno solo degli elementi indicati nell’art. 133 c.p., attinente alla personalità del colpevole o alla entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso, può essere sufficiente per negare (cfr., ex plurimis, Cassazione penale, sez. IV, 28/05/2013, n. 24172; Cass., sez. III, 23/04/2013, n. 23055, rv. 256172).
Per il diniego della concessione delle attenuanti generiche, pertanto, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente il riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, purché la valutazione di tale rilevanza tenga obbligatoriamente conto, a pena di illegittimità della motivazione, delle specifiche considerazioni mosse sul punto dall’interessato (cfr., ex plurimis, Cassazione penale, sez. IV, 256172). A tali principi si è puntualmente attenuta la corte territoriale, evidenziando, a fronte dei rilievi difensivi sul punto, con motivazione approfondita ed esente da vizi logici, da un lato la mancanza di elementi positivi ai quali ancorare un giudizio favorevole per il reo, in grado di giustificare la concessione del beneficio invocato, dall’altro la correttezza della valutazione operata al riguardo dal giudice di primo grado, che ha fondato la sua decisione sulla gravità del fatto, nonché sull’assenza di resipiscenza da parte dell’imputato, dimostratosi incapace di comprendere il disvalore della sua condotta. Evidente, dunque, l’infondatezza dei motivi di ricorso, avendo i giudici di merito puntualmente utilizzato i criteri di cui all’art. 133, c.p., per fondare il proprio argomentato rigetto della richiesta difensiva.
6. Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso di cui in premessa va, dunque, rigettato, con condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.
7. Va, infine, rilevato, che esula completamente dalla competenza di questa Corte fornire una risposta all’irrituale “Richiesta di chiarimenti in merito al deposito della richiesta di liquidazione delle spettanze defensionali dell’ammesso al patrocinio a spese dello Stato” fatta pervenire a mezzo fax dal difensore Marco Gatti in data 8.4.2016.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Normativa di riferimento:
Articolo 591 Codice Penale
Abbandono di persone minori o incapaci
Chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.
Alla stessa pena soggiace chi abbandona all’estero un cittadino italiano [4] minore degli anni diciotto, a lui affidato nel territorio dello Stato [4 2] per ragioni di lavoro.
La pena è della reclusione da uno a sei anni se dal fatto deriva una lesione personale [582], ed è da tre a otto anni se ne deriva la morte.
Le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal genitore [540], dal figlio, dal tutore [346] o dal coniuge, ovvero dall’adottanteo dall’adottato [291].
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