Violenza privata e diritto alla riservatezza anche sul web
Violenza privata e diritto alla riservatezza anche sul web
Corte di Cassazione Sezione III Penale
Sentenza 10 settembre – 8 ottobre 2015, n. 40356
Presidente Fiale – Relatore Orilia
Nel caso in commento la Cassazione, gli ermellini hanno esaminato il caso di un uomo che, sotto minaccia di pubblicazione di un video “intimo“, costringeva una ragazza a mantenere i contatti telematici con lui.
Più nello specifico, la Corte territoriale osservava che “la violenza privata – consistente nell’aver costretto la parte offesa ad avere contatti informatici con lui sotto continue minacce di pubblicazione in rete di un video che la ritraeva in pose oscene – risultava dimostrata dal contenuto minaccioso delle mail inviate alla ragazza, tenuta letteralmente sotto scacco; il reato di trattamento illecito dei dati personali risultava provato dalla avvenuta pubblicazione del video su You Tube con conseguente lesione del diritto alla riservatezza dell’immagine”.
Il delitto di violenza privata si consuma ogni qual volta l’autore con la violenza o con la minaccia lede il diritto del soggetto passivo di autodeterminarsi liberamente, costringendolo a fare, tollerare od omettere qualcosa. Al contrario della minaccia che ha natura formale, la violenza privata è un reato di danno, nel quale la condotta sanzionata si realizza con la coartazione della volontà altrui e l’evento lesivo si concretizza nel comportamento coartato di colui che l’ha subita.
La Corte d’Appello di Reggio Calabria nel caso di specie ha ravvisato gli estremi del reato dalla lettura delle mail allegate alla denunzia ed in particolare dal messaggio – di cui ha riportato il contenuto – con cui l’imputato, in caso di persistente blocco del contatto o di mancata risposta, prospettava alla ragazza gravi danni all’immagine derivanti dalla pubblicazione del video nell’ambiente ristretto di Reggio Calabria (“ne sparleranno tutti e ti macchierà per sempre“).
L’atteggiamento minaccioso del ricorrente, secondo la Corte d’Appello, consisteva nel costringere la ragazza ad intrattenere rapporti telematici, prospettandole la possibilità di divulgare il video in cui essa compariva con la gonna sollevata: in tal modo l’uomo, approfittando della disponibilità del video e minacciandone la divulgazione, aveva indotto la donna ad intrattenere le comunicazioni coartandone la capacità di autodeterminazione tenendola “sotto scacco“
La Cassazione, investita della vicenda, ha rigettato il ricorso dell’imputato ritenendo infondati i motivi posti alla base dello stesso, condannandolo anche alle spese del giudizio.
Articolo 610 Codice Penale
Violenza privata
Chiunque, con violenza [581] o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni.
La pena è aumentata [64] se concorrono le condizioni prevedute dall’articolo 339.
Testo della sentenza
Corte di Cassazione Sezione III Penale
Sentenza 10 settembre – 8 ottobre 2015, n. 40356
Presidente Fiale – Relatore Orilia
Ritenuto in fatto
Con sentenza 18.3.2014 la Corte d’Appello di Reggio Calabria – per quanto ancora interessa in questa sede – ha confermato la colpevolezza di C.A. in ordine ai reati di trattamento illecito di dati personali (art. 167 D. Lvo n. 196/2003, contestato al capo B) e violenza privata continuata (artt. 81 e 610 cp, di cui al capo D), commessi in danno di S.S..
Per giungere a tale conclusione, la Corte calabrese ha osservato che la violenza privata – consistente nell’aver costretto la parte offesa ad avere contatti informatici con lui sotto continue minacce di pubblicazione in rete di un video che la ritraeva in pose oscene – risultava dimostrata dal contenuto minaccioso delle mail inviate alla ragazza, tenuta letteralmente sotto scacco; il reato di trattamento illecito dei dati personali risultava provato dalla avvenuta pubblicazione del video su You Tube con conseguente lesione del diritto alla riservatezza dell’immagine.
L’imputato – tramite il difensore – propone ricorso per cassazione con due motivi.
Considerato in diritto
1 Con un primo motivo denunzia ai sensi dell’art. 606 lett. b) ed e) cpp, l’inosservanza dell’art. 610 cp nonché la mancanza di motivazione sulla sussistenza degli elementi costitutivi del reato di violenza privata (che il primo giudice aveva ritenuto assorbito nell’ipotesi della violenza sessuale originariamente contestata al capo C, da cui invece era stato assolto in appello).
Sostiene il ricorrente che la Corte territoriale non ha motivato sul condizionamento psicologico della vittima, avendo omesso di indicare gli elementi di indagine idonei a sostenere la tesi accusatoria. Ritiene insufficiente il mero stralcio di comunicazioni via mail ed evidenzia il comportamento tenuto dalla persona offesa che, lungi dal subire condizionamenti, lo fece addirittura venire allo scoperto contattandolo in rete su indicazione della Polizia Postale a cui lo aveva precedentemente denunciato.
Il motivo è infondato.
Come più volte affermato da questa Corte, il delitto di violenza privata si consuma ogni qual volta l’autore con la violenza o con la minaccia lede il diritto del soggetto passivo di autodeterminarsi liberamente, costringendolo a fare, tollerare od omettere qualcosa. Al contrario della minaccia che ha natura formale, la violenza privata è un reato di danno, nel quale la condotta sanzionata si realizza con la coartazione della volontà altrui e l’evento lesivo si concretizza nel comportamento coartato di colui che l’ha subita (v. tra le varie, Sez. 5, Sentenza n. 5593 del 10/03/2000 Ud. dep. 12/05/2000 Rv. 216111; Sez. 5, Sentenza n. 1195 del 27/02/1998 Cc. dep. 07/05/1998 Rv. 211230; Sez. 5, Sentenza n. 9082 del 02/03/1989 Ud. dep. 03/07/1989 Rv. 181716).
La Corte d’Appello di Reggio Calabria nel caso di specie ha ravvisato gli estremi del reato dalla lettura delle mail allegate alla denunzia ed in particolare dal messaggio – di cui ha riportato il contenuto – con cui l’imputato, in caso di persistente blocco del contatto o di mancata risposta, prospettava alla ragazza gravi danni all’immagine derivanti dalla pubblicazione del video nell’ambiente ristretto di Reggio Calabria (“ne sparleranno tutti e ti macchierà per sempre”). L’atteggiamento minaccioso del C. , secondo la Corte d’Appello, consisteva nel costringere la ragazza ad intrattenere rapporti telematici, prospettandole la possibilità di divulgare il video in cui essa compariva con la gonna sollevata: in tal modo il C. , approfittando della disponibilità del video e minacciandone la divulgazione, aveva indotto la donna ad intrattenere le comunicazioni coartandone la capacità di autodeterminazione tenendola “sotto scacco” (v. pag. 11 sentenza impugnata).
Trattasi, come si vede, di un percorso argomentativo giuridicamente corretto che da conto in maniera esauriente, attraverso una serie di accertamenti in fatto, della attività minacciosa posta in essere dall’imputato e della coartazione subita dalla vittima.
La sentenza impugnata non merita alcuna censura neppure sotto il profilo motivazionale anche perché – è bene ricordarlo – il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene solo alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo. Al giudice di legittimità è infatti preclusa – in sede di controllo sulla motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa). Queste operazioni trasformerebbero infatti la
Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard minimo di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione (cass. Sez. 6, Sentenza n. 9923 del 05/12/2011 Ud. dep. 14/03/2012 Rv. 252349).
Piuttosto, la tesi del ricorrente non solo tende ad una alternativa ricostruzione dei fatti, ma si riferisce anche ad iniziative poste in essere dalla donna su consiglio della polizia giudiziaria dopo la presentazione della denunzia e quindi a comportamenti successivi alla consumazione del reato. Essa pertanto non coglie nel segno.
2. Col secondo motivo il ricorrente denunzia ai sensi dell’art. 606 lett. b) ed e) cpp, l’inosservanza dell’art. 167 D. Lvo n. 196/2003 nonché la mancanza di adeguata motivazione sulla sussistenza di tutti i presupposti per ritenere concretata la fattispecie incriminatrice. Rimprovera alla Corte d’Appello di non avere motivato sul “nocumento” richiesto ai fini della punibilità della condotta, osservando che l’inserimento del video su You Tube non comportava comunque l’accesso da parte dei terzi perché egli aveva omesso, al momento della pubblicazione sul sito, di inserire criteri di ricerca e la riprova sta nel fatto che egli, ben consapevole della impossibilità per gli estranei di visionare il video, aveva minacciato la divulgazione su Facebook.
Anche questo motivo è infondato.
Il D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 167 (Codice in materia di protezione dei dati personali) così dispone:
“1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli artt. 18, 19, 23, 123, 126 e 130, ovvero in applicazione dell’art. 129, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da sei a diciotto mesi o, se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da sei a ventiquattro mesi.
2. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli artt. 17, 20 e 21, art. 22, commi 8 e artt. 11, 25, 26, 27 e 45, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da uno a tre anni”.
Ciò premesso, nel reato di illecito trattamento di dati personali di cui al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 167, il “nocumento” per la persona offesa, che nella fattispecie previgente si configurava come circostanza aggravante, e che oggi costituisce elemento essenziale del reato (cfr. sez. 3^ Sentenza n. 38406 del 9.7.2008, Fallarli) o, secondo altro orientamento, condizione obiettiva di punibilità (Sez. 3^, Ordinanza n. 7504 del 16/07/2013 Ud. dep. 18/02/2014 Rv. 259261; Sez. 3^, Sentenza n. 17215 del 17/02/2011 Ud. dep. 04/05/2011 Rv. 249991), rende la figura criminosa inquadrabile della categoria dei reati di danno e non (più) di mero pericolo.
È stato precisato altresì (cfr. Sez. 5^, Sentenza n. 44940 del 28/09/2011 Ud. dep. 02/12/2011 Rv. 251449, in motivazione) che il concetto di nocumento è ben più ampio di quello di danno, volendo esso abbracciare qualsiasi effetto pregiudizievole che possa conseguire alla arbitraria condotta invasiva altrui. Nel richiedere appunto il nocumento, la legge vuole escludere dalla sfera del penalmente rilevante quelle condotte, pure intrusive, che tuttavia siano rimaste del tutto irrilevanti nelle loro conseguenze (v. altresì, più di recente, Sez. 3, Sentenza n. 10485 depositata il 12.3.2015 non massimata).
Ora, nel caso di specie, la Corte d’Appello di Reggio Calabria, dall’avvenuto inserimento nel circuito You Tube del video ritraente la S. , ha desunto l’esistenza del nocumento consistente nella lesione del diritto alla riservatezza dell’immagine (v. pag. 12): trattasi di tipico accertamento in fatto, in questa sede insindacabile, rilevandosi che la censura del ricorrente si risolve ancora una volta in una critica di tipo fattuale laddove tende a sostenere l’inaccessibilità al file da parte degli utenti, circostanza peraltro indimostrata ed anzi esclusa dai giudici di merito.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese del grado in favore della costituita parte civile S.S. , che liquida in Euro 3.500,00 (tremilacinquecento/00) oltre spese generali e accessori di legge.
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