Licenziamento madre lavoratrice, risarcimento del danno e nullità del contratto
Licenziamento madre lavoratrice, risarcimento del danno e nullità del contratto
Corte di Cassazione, sezione Lavoro
Sentenza 10 febbraio – 29 aprile 2015, n. 8683
Presidente Stile – Relatore De Marinis
La Corte di Cassazione, con la sentenza che di seguito si riporta, ha esaminato un caso di licenziamento intimato ad una madre-lavoratrice.
In primo grado il giudice dichiarava il licenziamento illegittimo perché discriminatorio, in quanto intervenuto nell’anno di interdizione del recesso per maternità e, pertanto, la società datrice, veniva condannata al risarcimento del danno dalla data del licenziamento a quella dell’offerta della reintegrazione nel posto di lavoro mentre respingeva integralmente la domanda relativa al pagamento di tutte le differenze retributive indicate, confermava la declaratoria di nullità del licenziamento e la statuizione in ordine alle conseguenze risarcitorie.
La Corte territoriale riteneva che, in base al tenore della comunicazione di recesso inviata alla lavoratrice dalla società, non ravvisabile in essa e, dunque tale da mutare, in violazione del contrario principio invalso in sede giurisprudenziale, la causale giustificativa del recesso, l’imputazione di assenza arbitraria per il periodo, protrattosi per sei mesi, successivo a quello di regolare fruizione dell’astensione obbligatoria per maternità, derivandone la qualificazione del provvedimento datoriale come recesso intimato in violazione del divieto di cui all’art. 2 1. n. 1204/1971 e come tale nullo e soggetto al relativo regime di diritto comune implicante il risarcimento del danno, per il quale, sul presupposto della formulazione da parte della lavoratrice di apposita domanda nelle conclusioni del ricorso introduttivo, ribadiva, in difetto di ulteriori domande risarcitorie proposte in via incidentale dalla donna in sede d’appello, la pronunzia di condanna nei termini di cui alla decisione di primo grado.
Avverso la decisione della corte territoriale, la società presentava ricorso per cassazione lamentando l’omessa motivazione su un punto decisivo del giudizio – Violazione dell’art. 112 c.p.c. – Riconoscimento alla lavoratrice di un risarcimento non dovuto – Violazione dell’art. 18, comma 5, 1. n. 300/1970, dunque
Per gli ermellini “il motivo è infondato, essendo basato su argomentazioni e riferimenti normativi ultronei rispetto all’iter logico-giuridico seguito dalla Corte territoriale per pervenire alla conferma della statuizione risarcitoria resa dal primo giudice.
Nella motivazione dell’impugnata sentenza la Corte territoriale mostra chiaramente di ritenere, in consonanza con l’orientamento espresso da questa Corte (vedi le pronunzie ivi citate Cass. n. 16189/2002, Cass. n. 10531/2004 e Cass. n. 426/2005), il licenziamento intimato alla lavoratrice madre in violazione del divieto posto dall’art. 2 1. n. 1204/1971 come sottratto al regime sanzionatorio di cui all’art. 18 1. n. 300/1970 e, viceversa, soggetto al regime ordinario della nullità di cui all’art. 1418 c.c., che prevede, a fronte dell’inadempimento la comune sanzione del risarcimento del danno applicabile, tuttavia, per tutto il periodo di permanenza degli effetti dell’evento lesivo. Il che comporta l’inoperatività del disposto dell’invocato comma 5 dell’art. 18 citato che ricollega al rifiuto dell’offerta datoriale alla ripresa del lavoro l’effetto risolutivo del rapporto, del resto previsto con riguardo al periodo successivo all’emanazione dell’ordine giudiziale di reintegra, dovendosi semmai in precedenza parlare di revoca del licenziamento intervenuta allorché l’atto recettizio ha esplicato la sua efficacia, revoca che tuttavia il lavoratore ha diritto di rifiutare senza conseguenza alcuna. Ciò posto è evidente che, a seguito del rifiuto della lavoratrice, l’effetto liberatorio della Società dal vincolo conseguente alla perpetuatio obligationis avrebbe potuto derivare soltanto, secondo il regime ordinario della mora del creditore, dall’offerta reale della retribuzione, il che non si è verificato. Correttamente dunque la Corte territoriale ha ritenuto la permanenza dell’obbligo in capo alla Società, prefigurando la possibilità di una condanna del medesimo ad un risarcimento ulteriore, peraltro, contenuto, stante l’inammissibilità della condanna in futuro, alla data di emanazione della sentenza d’appello, condanna cui, come esplicitamente dichiarato in motivazione, la Corte stessa non è addivenuta, ribadendo viceversa la pronunzia sanzionatoria del primo giudice, solo per il difetto di una specifica domanda in tal senso da parte dell’allora appellata”
Infine, con un secondo motivo lamentava il “mancato accertamento dell’esistenza di assunzione presso altro datore di lavoro. Aliunde perceptum. Violazione dell’art. 18, comma 4, 1. n. 300/1970.
La Corte sul punto ha dichiarato il motivo inammissibile poichè “la Società ricorrente nulla deduce che valga ad attestare l’acquisizione al giudizio della circostanza da cui possa desumersi l’insorgenza di un diverso reddito suscettibile di limitare il danno risarcibile, requisito questo indefettibile perché il giudice possa procedere al relativo accertamento anche facendo ricorso ai suoi poteri officiosi”
Articolo 1418 Codice Civile
Cause di nullità del contratto
Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente.
Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’articolo 1325, l’illiceità della causa [1343], l’illiceità dei motivi nel caso indicato dall’articolo 1345 e la mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’articolo 1346.
Il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge [458, 778, 785, 788, 794, 1350, 1354, 1355, 1472, 1895, 1904, 1963, 1972, 2103, 2115, 2265, 2744].
Leggi il testo della sentenza
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